Nel Rinascimento del cinema ucraino emergono le voci femminili

L'ultimo decennio ha visto emergere il meglio delle forze, anche per l'urgenza condivisa da alcune generazioni di cineasti di contrapporsi, con una forte presenza artistica e creativa, al rischio di “invasione culturale” .

(di Massimo Tria, professore di Letteratura russa all’Università di Cagliari e socio di Memorial Italia)


28 luglio 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:14



Marysja Nikitjuk (Foto di Mykola Swarnyk –
CC BY-SA 4.0)



Si dice che le situazioni di crisi aguzzino l’ingegno e mettano in evidenza il meglio delle forze di un organismo. Si può affermare qualcosa di simile anche per il cinema dell’Ucraina, soprattutto a partire dal 2014, ossia dall’inizio della pesante ingerenza russa nel suo territorio. Nell’ultimo decennio il cinema di quel paese ha vissuto una sorta di vero e proprio Rinascimento (fortemente sostenuto dalla politica culturale governativa), uno dei motivi del quale può essere rintracciato proprio nell’urgenza condivisa da alcune generazioni di cineasti di contrapporsi, anche con una forte presenza artistica e creativa, al rischio di “invasione culturale” e omologazione rappresentato dalla più potente e pervasiva macchina produttiva (ivi inclusa quella mediatica e cinematografica) di Mosca.


A partire da The Tribe di Myroslav Slabošpyc’kyj (a Cannes nel 2014) i festival internazionali hanno ospitato con una certa regolarità film ucraini, alcuni dei quali hanno vinto premi importanti (si pensi allo stesso Slabošpyc’kyj, a Valentyn Vasjanovyč a Venezia, o a riconoscimenti guadagnati a Berlino o al Sundance), e alcuni di essi hanno perfino avuto una timida distribuzione nelle sale italiane. Anzi, la Settima arte è diventata una delle piattaforme di dialogo e collaborazione fra Ucraina e Italia: si vedano le coproduzioni Easy e Koza nostra o Il nido della tortora, ambientato in buona parte nel nostro paese. Ma all’interno di questo vivace contesto generale c’è un fenomeno particolare su cui merita soffermarsi, ossia il fatto che una parte consistente di questa “nuova ondata” sia rappresentata da voci femminili. Non si tratta solo di registe, ma anche di produttrici, organizzatrici di eventi, direttrici di festival che hanno spesso collaborato e fatto fronte comune, dando vita ad una specificità raramente rintracciabile in altre cinematografie emergenti (qualcosa di simile si può forse notare solo nel promettente gruppo di giovani autrici kosovare).


Non che in passato fossero mancate in quel cinema registe di valore (pensiamo per esempio a Kira Muratova o a Larisa Šepit’ko), ma si trattava comunque di autrici che, seppur nate o vissute a lungo in territorio ucraino, avevano visto stemperata la propria specificità nel mare magnum di una narrazione macro-statale sovietica che solo in parte permetteva di sottolineare la loro provenienza geografica.


Se vogliamo trovare un trait d’union fra quelle importanti autrici e la nuova generazione, possiamo pensare ad Olena Dem’janenko, russofona, un po’ più matura e appartata rispetto alla nuova nidiata di “angry young women” emerse dopo il 2014, ma comunque significativa. Il suo contributo ad una nuova visione della Storia e alla decolonizzazione dalle narrazioni russo-sovietiche è ben visibile in Mia nonna Fanny Kaplan, in cui viene appunto messa in dubbio la mitologia leniniana di sovietica memoria. La Kaplan era infatti una terrorista anti-bolscevica accusata dell’attentato a Lenin del 1918 e la sua vicenda viene usata dalla Dem’janenko per smontare alcune narrazioni sostenute dal cinema di propaganda. La figura del rivoluzionario russo è vista così da un’angolazione demitizzante, che per certi versi richiama alla mente un altro cortometraggio “leniniano”, quel The Fall of Lenin di Svitlana Šymko in cui, nella cornice ironica di una seduta spiritica, Vladimir Il’ič è prima disturbato nel suo sonno mortale, e poi raffigurato nella dissacrante sequela dell’abbattimento seriale delle sue statue, realizzata nelle diverse città ucraine nell’ambito della cosiddetta “decomunistizzazione”.


A dimostrazione di una amplissima gamma espressiva del cinema femminile di questo paese ricordiamo almeno en passant il successivo film della Dem’janenko, Ksenija la hucula, opera pop in costume la cui colonna sonora è affidata ad alcuni dei più importanti gruppi folk nazionali, i Dakhabrakha e le Dakh Daughters (donne anch’esse), per passare poi ad una delle opere più intense degli ultimi anni, When the Trees Fall di Marysja Nikitjuk, passato con successo al Festival di Berlino nel 2018, anch’esso intriso di reminiscenze folkloriche e ugualmente ambientato in un villaggio isolato (non c’è solo il cinema della capitale, dunque). La Nikitjuk è anche poetessa, prosatrice e modella, e il suo talento multiforme si concretizza qui in un flusso quasi ininterrotto di erotismo, turbinante violenza motoria, folclore ucraino e affascinanti suggestioni fantastiche. Marysia stava lavorando al suo secondo lungometraggio quando la Russia ha avviato la sua invasione su larga scala nel febbraio di quest’anno. La giovane regista è stata evacuata come profuga in diverse città ucraine e, durante una conferenza online da me organizzata insieme ai colleghi e agli studenti dell’Università di Padova, è stata persino costretta a nascondersi in fretta e furia in un rifugio anti-aereo nel ben mezzo del suo intervento, in una presa diretta drammatica e surreale a un tempo, che ha forse un tocco ancora più simbolico se consideriamo che si trovava in quel momento in un teatro adibito a centro di accoglienza per i profughi. Ora fa parte del novero di artisti ucraini accolti a varie latitudini europee: sta finendo di scrivere la sceneggiatura del suo secondo film in quella Sarajevo che qualche decennio fa ha subito simili violenze da parte del nazionalismo slavo. Cinema, teatro e realtà si intrecciano spesso con drammatici paradossi …


Solo quattro giorni di riprese mancavano a Natalija Vorožbyt’ per finire il suo secondo film, Demoni. Tratto da una sua pièce teatrale, il suo durissimo esordio a episodi Bad Roads aveva consolidato i rapporti cinematografici con l’Italia: era infatti passato alla “Settimana della Critica” della Mostra di Venezia del 2020, e ha conosciuto quest’anno una distribuzione nelle sale, seppur limitata, a dimostrazione che abbiamo a che fare con un gruppo di donne di cinema che si sanno muovere in più ambiti artistici e che avrebbero anche buone prospettive di mercato e di ricezione in vari mercati europei, se non fossero ostacolate dalla guerra. Pur non essendo l’unico ambito tematico affrontato, la guerra e l’invasione russa, ovviamente, si affacciano spesso nelle opere di queste ragazze, che spesso affiancano la propria missione artistica all’impegno civico. Pensiamo ad esempio a Dar’ja Oniščenko, che ha presentato quest’anno al Festival di Bari il suo The Forgotten, atto d’accusa senza sconti contro i separatisti del Donbass e il loro tentativo di oppressione della cultura ucraina. Il film ha ricevuto il Premio Federico Fellini, dedicato simbolicamente a tutti i cineasti del paese invaso. Molti di essi, ha ricordato la battagliera regista, sono impegnati in questi mesi al fronte, spesso come reporter di guerra che testimoniano i crimini dell’esercito russo, mentre le registe donne fanno (come lei) volontariato in patria o opera di sensibilizzazione nelle arene dei festival internazionali.


Questo attivismo, non disgiunto da grande talento registico, si ritrova per esempio in Maryna Er Gorbač, autrice di una delle opere più sconvolgenti fra quelle a tematica bellica. Il suo Klondike è ambientato nei primi mesi dell’invasione, quando nel 2014 un missile (molto probabilmente sparato dai separatisti filorussi) abbatté un aereo della Malaysia Airlines. La potenza metaforica di questa pellicola è devastante e non si dimentica facilmente: semplici abitanti del Donbass costretti a vivere in case bombardate, a districarsi con astuzia fra le varie fazioni in lotta e persino a partorire in un desolato contesto di morte e minaccia.


È però forse la forma del documentario quella che restituisce con maggiore fedeltà il grumo di paura, rabbia e urgenza di sopravvivenza che il cinema femminile ucraino esprime negli ultimi anni, pur nella varietà dei suoi approcci. Pensiamo ad autrici come Alina Gorlova, che con il suo This Rain Will Never Stop segue l’impegno umanitario di un profugo curdo, perseguitato dalle bombe di Putin prima nella sua Siria e poi in Donbass; o a Olha Žurba, che con Outside racconta le vicende di un ragazzo di etnia rom che era stato attivista sul Majdan, o ancora ad Anna Kryvenko, il cui My Unknown Soldier testimonia un disperato tentativo di reazione allo spaesamento antropologico. La Kryvenko, ormai trasferitasi a Praga, scopre che un suo antenato aveva preso parte all’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e con il suo film semantizza questo “doppio trauma”. A parte ricorderemo Nadija Parfan, che, oltre all’ironico e godibile Heat Singers, dedicato al coro amatoriale di una fabbrica di Ivano-Frankivs’k, ha al suo arco il merito di aver creato una sorta di “Netflix del cinema ucraino”. Su Takflix, infatti si possono trovare, con sottotitoli inglesi, molti dei migliori film girati a Kyïv e dintorni nell’ultimo ventennio.


Per finire questo rapido excursus, ci piace ricordare la giovane produttrice Valerija Sočivec’, a capo di una delle piattaforme creative più promettenti, Cinema Ucraino Contemporaneo, che dimostra come l’intraprendenza di queste gentili ma forti amazzoni non si limiti solo al lavoro svolto dietro una macchina da presa, e si accompagni invece a sapienza organizzativa e logistica. Valerija aveva presentato agli organi competenti la sceneggiatura del suo primo lungometraggio da regista il giorno prima dell’invasione russa (ovviamente ora è tutto sospeso…), e uno dei suoi progetti produttivi è stato montato negli ultimi mesi nei sotterranei antimissile. O ancora Julija Sin’kevič, che è stata una delle poche direttrici donne dei festival di cinema negli ultimi anni. Il suo Festival di Odessa, infatti, è stato per anni un punto di incontro fondamentale per i migliori talenti del cinema nazionale. Ovviamente, quest’anno, l’evento non si terrà (solo in parte è stato ospitato dal festival ceco di Karlovy Vary), così come non si è tenuto il Docudays UA, festival del cinema sui diritti civili, alcune delle cui animatrici, Dar’ja Bassel’ e Viktorija Leščenko, hanno presentato al Festival di Cracovia una piccola selezione dei film disponibili. A dimostrazione di una rete di operatrici culturali che sa anche usufruire degli aiuti internazionali e del prestigio ormai guadagnato a livello continentale.


Molte altre valide autrici le possiamo qui solo fugacemente ricordare: Iryna Cilyk, Kateryna Gornostaj, Maryna Stepan’ska, Olesja Morgunec’-Isajenko, Eva Nejmann, Tonja Nojabr’ova… la speranza è che la guerra finisca il prima possibile, e che la parola torni alla macchina da presa, alla molteplicità di queste voci femminili e non ai missili.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria.

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige. A cura di Andrea Gullotta con traduzione di Giulia De Florio (Stilo Editrice, 2022). Il protagonista del libro di Irina Flige è Sandormoch (Carelia), la radura boschiva in cui, negli anni Novanta, Veniamin Iofe, Irina Flige e Jurij Dmitriev scoprirono la fossa comune dove era stata sepolta un’intera tradotta di detenuti del primo lager sovietico, sulle isole Solovki. Sandormoch è un luogo chiave per comprendere il ruolo della memoria storica nella Russia contemporanea e la battaglia ingaggiata dagli attivisti e storici indipendenti contro l’ideologia ufficiale. La scoperta di questa fossa comune e la creazione del cimitero commemorativo sono soltanto due “atti” della tragedia che ruota intorno a Sandormoch e che ha portato all’arresto e alla condanna di Jurij Dmitriev, attualmente detenuto in una colonia penale. Nella peculiare e coinvolgente narrazione di Flige, adatta anche a un pubblico di non specialisti, la memoria si fa vivo organismo, soggetto a interpretazioni, manipolazioni, cancellazioni e riscritture. Il trauma del Gulag si delinea così come il terreno di scontro tra uno Stato autoritario e repressivo e l’individuo libero che vuole conoscere la verità e custodire la memoria del passato. Irina Anatol’evna Flige (1960), attivista per i diritti civili e ricercatrice, collabora da anni con antropologi e storici per condurre ricerche legate alla scoperta e preservazione dei luoghi della memoria del periodo staliniano. Nel 1988 entra a far parte di Memorial, associazione all’epoca non ancora ufficialmente registrata. Ne diventa collaboratrice nel 1991 e dal 2002 ricopre la carica di direttrice di Memorial San Pietroburgo.

Leggi

Proteggi le mie parole

Proteggi le mie parole. A cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio con prefazione di Marcello Flores (Edizioni E/O, 2022). «Due membri di Memorial (l’associazione insignita nel 2022 del Premio Nobel per la Pace) – Sergej Bondarenko, dell’organizzazione russa, e Giulia De Florio, di Memorial Italia (sorta nel 2004) – ci presentano una testimonianza originale e inedita che getta una luce inquietante, ma anche di grande interesse, sul carattere repressivo dello Stato russo, prima e dopo il 24 febbraio 2022, data d’inizio della guerra d’aggressione all’Ucraina. La raccolta che viene presentata comprende le ‘ultime dichiarazioni’ rese in tribunale da persone accusate di vari e diversi reati, tutti attinenti, però, alla critica del potere e alla richiesta di poter manifestare ed esprimere liberamente le proprie opinioni» L’idea del volume nasce da una semplice constatazione: in Russia, negli ultimi vent’anni, corrispondenti al governo di Vladimir Putin, il numero di processi giudiziari è aumentato in maniera preoccupante e significativa. Artisti, giornalisti, studenti, attivisti (uomini e donne) hanno dovuto affrontare e continuano a subire processi ingiusti o fabbricati ad hoc per aver manifestato idee contrarie a quelle del governo in carica. Tali processi, quasi sempre, sfociano in multe salate o, peggio ancora, in condanne e lunghe detenzioni nelle prigioni e colonie penali sparse nel territorio della Federazione Russa. Secondo il sistema giudiziario russo agli imputati è concessa un’“ultima dichiarazione” (poslednee slovo), la possibilità di prendere la parola per sostenere la propria innocenza o corroborare la linea difensiva scelta dall’avvocato/a. Molte tra le persone costrette a pronunciare la propria “ultima dichiarazione” l’hanno trasformata in un atto sì processuale, ma ad alto tasso di letterarietà: per qualcuno essa è diventata la denuncia finale dei crimini del governo russo liberticida, per altri la possibilità di spostare la discussione su un piano esistenziale e non soltanto politico. Il volume presenta 25 testi di prigionieri politici, tutti pronunciati tra il 2017 e il 2022. Sono discorsi molto diversi tra loro e sono la testimonianza di una Russia che, ormai chiusa in un velo di oscurantismo e repressione, resiste e lotta, e fa sentire forte l’eco di una parola che vuole rompere il silenzio della violenza di Stato. Traduzioni di Ester Castelli, Luisa Doplicher, Axel Fruxi, Andrea Gullotta, Sara Polidoro, Francesca Stefanelli, Claudia Zonghetti.

Leggi

Queer Transnationalities. Towards a History of LGBTQ+ Rights in the Post-Soviet Space.

Queer Transnationalities. Towards a History of LGBTQ+ Rights in the Post-Soviet Space. A cura di Simone Attilio Bellezza e Elena Dundovich (Pisa University Press, 2023). Il volume è disponibile gratuitamente in versione e-book. With the end of Soviet persecutions in 1991, LGBTQ+ communities have experienced a period of development even though post-Soviet societies have only partially shown greater tolerance toward sexual and gender minorities. The transnational interaction between Western activism and post-Soviet communities has led to the emergence of new feelings of gender, sexual, and national belonging. This volume presents research by experts in queer studies who study how the struggle for sexual and gender minority rights has intersected with the construction of political, social, and cultural belongings  over the past three decades.

Leggi