Un giorno verrà un uomo dagli occhi azzurri e dirà “Roar”

La prima uscita di Russian Oppositional Arts Review è interamente dedicata all’aggressione russa in Ucraina, con un numero eterogeneo di rubriche e collaboratori. Chi ha un minimo di familiarità con la storia sovietica non può non rimanere impressionato da questo ritorno a una cultura clandestina e dissidente.

(di Simone Guagnelli, ricercatore di Cultura russa all’Università di Bari e socio di Memorial Italia)


18 luglio 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:13


Anche oggi, come ieri, i dissidenti russi li sosterremo domani. Quanto tempo abbiamo perso in Italia a blaterare di censura, a piangere su episodi di avanspettacolo e opportunismo spacciati per repressione. Dobbiamo recuperarlo quel tempo. Dobbiamo farlo per la Russia, lo dobbiamo a chi, ridotto in prigione, all’esilio, sta combattendo una battaglia di cui in Italia non si parla mai.


Qui da noi, l’unica cultura russa censurata è quella dei dissidenti. Dal 24 febbraio il teatrino mediatico italiano ha dato parola a chiunque: specialisti, intellettuali, giornalisti, opinionisti, propagandisti, personaggi pubblici, gente, tutti rigidamente schierati in due blocchi non comunicanti. Ci si è divisi su tutto. L’attenzione si è principalmente schierata e radicalizzata su un punto: dar voce o no ai russi?


È stato costruito ad arte nel nostro Paese il concetto di russofobia e molti vi hanno danzato intorno. Si è fatto un grande parlare della povera, grande cultura russa censurata, a partire dal caso (sembra un secolo fa) di Paolo Nori: le sue quattro lezioni sui romanzi di Dostoevskij per la Bicocca saltate. Censura! Vergogna! Lacrime.


Eppure, lo stesso scrittore e traduttore italiano nelle sue due dirette Instagram dei primi di marzo, dava inizialmente voce proprio ai dissidenti, al premio Nobel per la pace, Dmitrij Muratov, erede morale di Anna Politkovskaja, direttore della Novaja gazeta, testata che nel frattempo, almeno in Russia, è stata ridotta al silenzio, al suo editoriale del 25 febbraio in russo e ucraino. L’autore di Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Mondadori 2021) ricordava inoltre le disavventure di Ivan Urgant (il popolare conduttore televisivo russo, famoso anche da noi per Ciao 2020) che dopo essersi pubblicamente schierato contro la guerra si è visto cancellare la fortunata striscia televisiva quotidiana, con voci inquietanti nei giorni successivi sulle sue sorti personali. Nori si soffermava infine sul caso particolare del fotografo Aleksandr Gronskij, il cui invito al Festival Fotografia Europea di Reggio Emilia è stato revocato. Espressa la propria (e da me condivisa) solidarietà a Gronskij, Nori riportava la dignitosissima risposta ricevuta dal fotografo russo, che ha manifestato la propria ferma condanna per l’aggressione russa e che ha per questo passato diverse ore in carcere.


Dopo aver riportato la voce di questi tre dissidenti russi, Nori raccontava il proprio caso: le quattro lezioni sui romanzi di Dostoevskij rimandate dalla Bicocca. La reazione in diretta di Nori è stata, comprensibilmente, molto forte e immediato è stato il riferimento alla censura: “Cioè censurare un corso, cioè non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia, anche essere un russo morto, che quando era vivo nel 1849 è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita”. L’appiattimento dell’immagine di Dostoevskij al 1849, come se successivamente, fino alla morte nel 1881, non avesse fatto in tempo a dar prova di sé come nazionalista antisemita e imperialista (cosa che nulla toglie al suo genio), da quel momento in poi diventava una vulgata mandata a memoria da chiunque.


Nei giorni a seguire si sarebbe peraltro scoperto che dalla parte di Nori si erano schierati il capo di gabinetto del presidente del Consiglio, Antonio Funiciello, Draghi stesso e la ministra dell’Università italiana, Maria Cristina Messa. Un caso ben strano di censura. La storia in due giorni poteva dirsi risolta, e si poteva finalmente tornare ad occuparsi dei veri censurati, dei veri dissidenti (dei russi vivi, dei russi morti, dei russi in prigione), sostenerli, fare da megafono alla loro voce. E invece no. La Bicocca tentava un tardivo ripensamento cercando in modo bislacco di affiancare scrittori ucraini a Dostoevskij. Nori giustamente rifiutava e incassava, invece, gli inviti di praticamente tutta la comunità accademica italiana a tenere lezioni su Dostoevskij (che infatti si sono moltiplicate).


Quello della Bicocca è stato uno sciocco tentativo di opportunismo: non si voleva censurare Dostoevskij, ma lo si voleva piegare strumentalmente alla contingenza del momento. Una inqualificabile scelta di un singolo ente era però ormai diventata l’emblema di una inesistente russofobia italiana, della fittizia censura di un Paese, di una immaginaria cancel culture contro la Russia da parte di tutto il mondo occidentale. E da lì non si sarebbe più tornati indietro. Ormai il circo mediatico si era messo in moto. Per togliere all’Italia l’onta della censura, si cominciava ad ospitare ovunque i portavoce della propaganda russa. E si mettevano a tacere per sempre i dissidenti russi.


Credo che il punto più paradossale lo si sia toccato alcuni giorni dopo, quando l’artista napoletano Jorit ha realizzato, nel suo stile, un volto tigrato di Dostoevskij sulla parete di una scuola a Napoli. La sua era una risposta al tentativo di censurare Dostoevskij in occidente: creare un’opera che potesse farsi strumento di dialogo e pace (Putin e tutta la cassa mediatica di propaganda russa stanno ancora ridendo e ringraziando per questo assist). L’opera è corredata da una citazione (bellissima) da Uccellacci e Uccellini di Pasolini (“Bisogna cambiarlo questo mondo, fra’ Ciccillo! È questo che non avete capito. Un giorno verrà un uomo dagli occhi azzurri e dirà: «Sappiamo che la giustizia è progressiva e sappiamo che man mano che progredisce la società, si sveglia la coscienza della sua imperfetta composizione e vengono alla luce le disuguaglianze stridenti e imploranti che affliggono l’umanità». Non è forse questa avvertenza, della disuguaglianza fra classe e classe, fra nazione e nazione, la più grave minaccia della pace?”). Io dubito che l’uomo dagli occhi azzurri possa essere Dostoevskij, se non altro per motivi cromatici, fatto sta che ora a Napoli c’è un enorme murale tigrato di Dostoevskij che porta riflessi in un occhio la bandiera del Donbass e le parole “Doneck” e “Lugansk”. Con buona pace del dialogo e della pace stessa. Esattamente come la Bicocca, anche Jorit ha usato e strumentalizzato Dostoevskij piegandolo a ragioni ideologiche che nulla hanno a che fare con la pace.


Povera Russia mia, presa e mangiata da tutti, corpo e sangue, tradita anche da chi giurava di amarti e invece amava solo baciare “gli occhiаcci da blatta” e leccare “i gambali luccicanti” dell’ennesimo montanaro del Cremlino.


Eppure, c’era un modo per non rimanere in silenzio o per non fare solo rumore, per non dimenticare la lezione di Mandel’štam. Kto skazal, čto drugogo PUTI Net? (chi ha detto che non c’è un’altra via? – vecchio slogan della dissidenza russa, almeno a partire dal 2000 e dalla Seconda guerra cecena, con un gioco di parole intraducibile ma che la fa risuonare come “Chi ha detto che non esiste una alternativa a Putin?”). Quella via c’è ancora, basta seguirla, è la via del dissenso russo, l’unica voce rimasta silenziata nell’agone mediatico italiano.


Lo stesso Nori l’aveva inizialmente ben individuata, si sarebbe dovuti partire da quel Dmitrij Muratov, dare risalto nazionale alla sua lunga video-intervista – sottotitolata in italiano dal gruppo traduzioni di Memorial Italia – concessa a Katerina Gordeeva, con parole da scolpire in ogni piazza, in ogni mercato, in ogni aula universitaria. Si poteva dare voce a Memorial stessa, sia a quella Internazionale, soppressa vigliaccamente poche ore prima dell’inizio dell’aggressione, sia alla filiale italiana che in questi mesi ha aumentato i propri soci e i propri sforzi: a una pagina Facebook e a un Canale Youtube già esistenti, ha affiancato un blog nella testata Huffington Post Italia, una pagina Instagram e un profilo Twitter. Basterebbe, anche ora, dare risalto e diffusione a tutte le iniziative che stanno gravitando attorno a Memorial o che in modo autonomo stanno cercando di far sentire l’unica voce che di Russia ha diritto di parlare, quella dei suoi dissidenti, costretti a fuggire per l’ennesima volta in cento anni, costretti a patire arresti ingiustificati, a rischiare la vita per una Russia libera. Ascoltiamole e diffondiamole le “Voci contro la guerra”.


Con questo titolo in questi mesi sono usciti in Italia due progetti, diversi come forma ma uniti e coincidenti nello spirito. Il primo, in ordine cronologico, è Voci contro la guerra (attivo dal 28 febbraio) organizzato dall’Università per stranieri di Siena e coordinato da Giulia Marcucci, un portale che raccoglie, come scrive il rettore Tomaso Montanari, “voci che dalla Russia, dall’Ucraina e da altre parti del mondo si ribellano alla guerra e al nazionalismo […] Di fronte alla guerra, l’Università per Stranieri di Siena è dalla parte delle vittime, e della pace. Accanto alle donne e agli uomini dell’Ucraina sotto le bombe. E accanto a chi – specialmente in Russia – si batte coraggiosamente per la pace. Con la sua piccola voce, la nostra università chiede il cessate il fuoco senza condizioni, e il ritiro delle truppe russe”.


Tra le cose lì pubblicate spicca un appello di scrittrici e scrittori russi e bielorussi (tra i firmatari ci sono i nomi più noti – Vladimir Sorokin, Svetlana Aleksievič, Ljudmila Ulickaja, Marija Stepanova, Aleksandr Genis, Lev Rubinštejn, Michail Šiškin, Boris Akunin), con uno struggente richiamo alla lingua russa che sembra una citazione di Coraggio (1942) di Anna Achmatova – “Oggi la lingua russa è usata dallo stato russo per fomentare l’odio e giustificare la vergognosa guerra con l’Ucraina. I mezzi di comunicazione di massa esprimono in russo la stessa menzogna che, come una cortina fumogena, avvolge questa aggressione. I cittadini russi sono cresciuti a menzogne. Le fonti d’informazione indipendente sono state quasi tutte liquidate. Molti leader dell’opposizione al regime sono stati costretti a tacere. La macchina statale della propaganda lavora a pieno ritmo.


In questa situazione è fondamentale rivelare con spirito critico la verità assoluta sull’aggressione della Russia all’Ucraina. Sulle sofferenze e le perdite subite dal popolo ucraino. Sui pericoli che incombono su tutto il continente europeo e, probabilmente, sull’umanità intera (nel caso della minaccia nucleare). Voi parlate in russo. Questo ha un grande significato. Per favore, usate tutti i possibili mezzi di comunicazione. Il telefono. Messenger. La posta elettronica. Parlate con chi conoscete. Con chi non conoscete. Se Vladimir Putin è cieco e sordo, i russi forse sapranno ascoltare chi parla la loro stessa lingua. Questa guerra assassina deve essere fermata”).


Il portale di Unistrasi ospita inoltre una serie di voci singole, russe, ucraine, anonime; tra queste: Anna Starobinec (“Che cosa posso fare? Restare in Russia e tacere. Diventare una complice. No, non posso nemmeno questo. Che cosa posso fare allora? Andarmene chi lo sa dove e perdere tutto. Eccetto briciole di autostima e i miei figli. Ecco la mia alternativa. L’ho scelta e me ne sono andata”), Alisa Ganieva (“Nonostante il fatto che Putin, Lukašenko e tutto il loro seguito militare e civile appaiano come un esercito di psicopatici clinici, nonostante questo, i loro crimini non devono essere archiviati come casi di follia. Devono rispondere in tribunale di ogni loro delitto, di quelli segreti e di quelli alla luce del sole, e io mi auguro con tutto il cuore che vivremo fino a quel giorno, sia loro, sia noi”), Lev Rubinštein (“Come comprendere, dal punto di vista della logica classica, il fatto che la «Russia pacifista» ha attaccato «l’Ucraina fascista» al fine di «smilitarizzarla»? Non c’è modo di capirlo se non tenendo conto del fatto che nel vocabolario politico della Russia moderna le parole non hanno affatto il significato che hanno nei dizionari accademici e molto spesso hanno significati direttamente opposti”), Ljudmila Petruševskaja (“Oggi la Russia delle donne è stata offesa, è stata umiliata. I generali di Putin la disonorano, la calpestano, le portano via i figli per una guerra meschina e rivoltante; una guerra contro quelli che sono suoi fratelli e sue sorelle, contro quell’Ucraina che tanto amiamo e che è parte di noi”).


Contenitore di voci è anche l’antologia *** / *****. Voci russe contro la guerra, tradotta e curata da Mario Caramitti e Massimo Maurizio, uscita a metà maggio nella collana petuШki dell’Università di Torino e disponibile gratuitamente in rete. Titolo già di per sé emblematico con l’ellissi che sostituisce la più impronunciabile delle frasi russe: net vojne, no alla guerra, ma che nello stesso tempo forse allude anche alla tradizione della lingua per eccellenza impronunciabile, quella del “mat”, del linguaggio osceno russo, per cui diventa anche chuj (in cirillico sono tre lettere) vojne, fanculo alla guerra. Del resto, tutto in Russia è diventato impronunciabile e il russo ufficiale ormai sembra una lingua orwelliana che non significa più niente: “operazione speciale militare”, “agente straniero”, bobok, per tornare per un secondo a Dostoevskij. Tutto in Russia e della Russia fa paura, anche scendere in piazza con quei 3+5 asterischi o con un cartello vuoto, o senza cartello, solo facendo finta di reggere un cartello può bastare per farsi 15 anni di carcere.


Come scrivono i curatori nell’introduzione: “Nel loro complesso i testi raccolti costituiscono un moderno lamento per la rovina della terra russa, oggi minacciata come forse mai prima nella sua essenza identitaria e nella coesione geopolitica stessa. Molti i temi condivisi: un senso di colpa tragico, la drammatica consapevolezza dell’impotenza della pur necessaria opposizione individuale, l’abbrutimento della coscienza collettiva e la sua schiavitù mediatica, lo sfregio fratricida che accentua l’orrore, la sinistra ipocrisia della chiesa ortodossa”. Ancora una volta basta scorrere i nomi (almeno quando presenti; a volte, infatti, compaiono pseudonimi o testi anonimi) per farsi un’idea della bontà dell’antologia: di nuovo da Marija Stepanova (1972, la più importante poetessa russa contemporanea: “Vi rendo grazie, vasti boschi, / Pianure, monti, / E tu, fascia costiera a due punte, / E tu, sorella volpe dalla gola fine / E tu lingua che a intervalli di mezzora / Lecchi le palle di cannone del disonore // Non te lo mangi, non lo inzuppa l’onda / E la volga non lo reincarna in fondale / Chi a dritta chi a strilla / Che bestialità belluina borbotta / A quali cazzo di cariatidi / Dar la colpa prima che stacchino la spina”) a Lev Rubinštejn (1947, classico del samizdat russo e rappresentante del Concettualismo moscovita).


La scelta degli autori e della selezione attuata per l’antologia è stata peraltro spiegata da Mario Caramitti a radio 3 durante la puntata del 3 giugno di Fahreneit (Russia, scrittura di pace): “la prima cosa è che appunto abbiamo scelto il punto di vista esclusivamente russo, esclusivamente dall’interno. Non abbiamo scelto poeti emigrati da molto tempo, non abbiamo scelto poeti russofoni, perché fosse chiara la posizione, da chi viene la voce di dolore, di angoscia e infinitamente lancinante di chi si sente aggressore, di chi si scopre dalla mattina alla sera aggressore. Questo è stato il primo criterio. Il secondo: abbiamo scelto tutti poeti e scrittori di altissima qualità, di altissimo livello. Terzo criterio: abbiamo dato totale libertà e spazio a voci molto diverse fra di loro, voci che vanno dal lamento più straziante, al lutto, alla satira contro la società russa che accetta l’incentivo alla guerra, all’invettiva veloce, furente”. Nello stesso contenitore radio, Caramitti si è poi coraggiosamente espresso contro quei, per fortuna pochi, attivisti culturali russi che hanno sostenuto apertamente l’aggressione russa all’Ucraina: “La parte di cultura russa oggi a favore della guerra ce l’ho qua sulla punta delle dita, se volete ve li cito: il cineasta Šachnazarov, il vergognoso Prilepin, il vecchio genio Michalkov, venduto, come sempre, a Putin. Sono finiti. Alcuni naturalmente tacciono, ma non vuol dire. A favore della guerra putiniana, da parte degli scrittori e dei poeti russi, ci sono quattro o 5 nomi”.


Sia il portale dell’Università di Siena che l’ebook dell’Università di Torino sono peraltro figli di quello che è il maggiore evento della cultura d’opposizione a Putin; infatti, più di qualcuno dei testi tradotti nei due progetti editoriali citati fanno parte del primo numero di ROAR (Russian Oppositional Arts Review), un bimestrale uscito simbolicamente il 24 aprile (a due mesi esatti dall’invasione e in concomitanza con la Pasqua ortodossa). La prima uscita è interamente dedicata all’aggressione russa in Ucraina e presenta un numero estremamente eterogeneo di rubriche (saggi, poesia, prosa, musica, arti visive e strumentali) e una altrettanto vasta comunità di collaboratori (con nomi fondamentali quali Dmitrij Kuz’min, Anna Starobinec, Viktor Melamed, Vitalij Komar, Lev Rubinštein, Oleg Lekmanov e tanti altri, compreso un numero considerevole di anonimi e di pseudonimi). Chi ha un minimo di familiarità con la storia sovietica, non può non rimanere impressionato da questo ritorno a una cultura clandestina e dissidente che ripercorre l’esperienza del samizdat e del tamizdat riproposti in una variante elettronica; difficile non andare con la mente ai tempi di Brodskij, Sinjavskij, Daniel’ e non provare un brivido. La rivista è diretta da Linor Goralik, scrittrice e poetessa russo-israeliana (ma nata nell’attuale Dnipro, Ucraina, nel 1975) nonché attivista per i diritti delle persone LGBT. Nel suo editoriale Goralik ha scritto che i materiali hanno come caratteristica quello di contrapporsi alla cultura russa ufficiale e a quella che è leale e servile con la propaganda, “al servizio dell’attuale governo criminale russo”. La rivista prevede per ogni numero un tema specifico: il 24 giugno è nel frattempo uscito il secondo dal titolo “Resistere alla violenza” e per il 24 agosto è in preparazione il terzo dedicato alla “Resistenza quotidiana”. Ogni numero esce come minimo in due lingue (russo e inglese), ma Goralik ha auspicato che specialisti di ogni parte del mondo possano contribuire a una versione in più lingue (anche questo rientra perfettamente nella tradizione del tamizdat). Di recente è già comparsa sul sito la versione francese del primo numero e quella giapponese del secondo.


L’editoriale del primo fascicolo di ROAR si conclude con una presa di coscienza collettiva e con il pronome personale che tanto ricorda i manifesti dei cubofuturisti: “Noi già da ora aspettiamo con ansia il momento in cui ROAR potrà essere chiuso per sempre, cioè il momento in cui non ci sarà più bisogno di etichettare un certo segmento della cultura russofona come di opposizione al regime criminale russo, semplicemente perché quel regime avrà cessato di esistere. Ma finché ciò non accadrà, faremo tutto il possibile per garantire che ROAR, attualmente organizzato esclusivamente da volontari, continui a uscire”.

In Italia, il Collettivo Russia Resistente (ЯR), nato ai primi di marzo, ha annunciato su Instagram di aver contattato la stessa Goralik e di essere a lavoro per presentare nel più breve tempo possibile una versione italiana. Per collaborare si può iscrivere a russiaresistente@gmail.com. Ecco, dunque, un’occasione concreta di mettersi al servizio della dissidenza russa e degli unici censurati.

Nell’attesa che esca la traduzione italiana, non mi resta che affacciarmi ogni tanto dalle parti della Basilica di Bari: sono certo che prima o poi vi comparirà un’icona laica di San Nicola, anche lui con il volto tigrato e, riflessa in un occhio, l’indimenticabile e luminosa effigie di Anna Politkovskaja.

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