Serhij Žadan (Foto di Mariusz Kubik)
(di Alessandro Achilli, ricercatore dell’università di Cagliari)
22 giugno 2022
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:08
In Ucraina la letteratura non è generalmente vissuta come qualcosa di astratto o di slegato dalla storia e dalla politica. Alla metà dell’Ottocento, sull’onda della rivoluzione culturale romantica, quel Taras Ševčenko (1814-1861) che si sarebbe rapidamente imposto come lo scrittore nazionale per eccellenza portò la lingua e la letteratura ucraina alla modernità. Facendo riemergere nella sua opera una lunga tradizione culturale che affondava le radici nel medioevo e nel Barocco e che da più di un secolo si ritrovava sotto l’oppressione russa, Ševčenko fu il primo di una lunga serie di scrittori ucraini per cui la dedizione alla penna – o, oggi, al computer – si fonde con l’impegno civico e la lotta per la sopravvivenza dell’Ucraina. E non a caso, dopo la morte di Ševčenko, l’Impero russo decise di bandire quasi totalmente l’uso della lingua ucraina come strumento di comunicazione scritta.
E, ancora non a caso, i partecipanti della Rivoluzione della Dignità del 2013-2014, più nota in Italia come Euromaidan, amavano scendere in piazza e decorare la città con ritratti dei più famosi scrittori ucraini dell’Ottocento e del Novecento, ritratti spesso rivisitati in chiave contemporanea con elmetti, pneumatici e altri strumenti di battaglia urbana. Nel Novecento molti furono gli scrittori uccisi, deportati o costretti a rinnegare la propria ispirazione perché il solo fatto di essere un intellettuale ucraino significava, dal punto di vista del centro imperiale moscovita, quello che oggi Vladimir Putin non si fa problemi a definire “fascismo”.
E proprio in questi mesi, dopo il 24 di febbraio, vediamo come essere uno scrittore o una scrittrice in Ucraina significa ancora, prima di tutto, un’interminabile lotta per la sopravvivenza del proprio paese, della propria lingua e della possibilità stessa di continuare a esistere e a creare cultura. In una recente intervista al Kyiv Independent, Serhij Žadan, il volto più noto della letteratura ucraina contemporanea sia in Ucraina che all’estero e ampiamente tradotto anche in italiano, ha detto che “se la Russia vince, non ci sarà letteratura, non ci sarà cultura, non ci sarà niente”.
Per Žadan, come per molti altri intellettuali dell’Ucraina di oggi, la scrittura è paradossalmente – e dolorosamente – passata in secondo piano. E oggi l’attività principale di Žadan, fino all’inizio di quest’anno impegnato con la sua band e in molti progetti letterari, è quella di fornire assistenza ai soldati, a chi è costretto a lasciare Charkiv, la sua città di adozione, e a chi continua a viverci nonostante il pericolo non sia certo passato. La necessità di contribuire alla difesa del paese, tanto al fronte quanto nelle città non più o non ancora in prima linea, significa per un grande numero di scrittori e scrittrici un impegno costante in tuta mimetica, o nel supporto ai rifugiati interni e a chi è costretto a lasciare il paese, o nella gestione degli aiuti materiali che arrivano dall’estero.
Ma se da quasi quattro mesi a questa parte la priorità è indubbiamente quella di sporcarsi le mani aiutando il paese a difendersi e ad andare avanti, la scrittura, soprattutto quella poetica, è un altro elemento indispensabile, in grado di svolgere almeno tre funzioni vitali: facilitare la comprensione di quello che sta succedendo tramite quella paradossale fusione di immediatezza e complessità che caratterizza il linguaggio poetico; preservare la memoria del presente per il futuro; e, anche grazie alle traduzioni, far dialogare la cultura ucraina di oggi con i lettori stranieri, contribuendo così a tenere viva l’attenzione verso l’Ucraina all’estero. In questo fondamentale è il ruolo dei social media, che permettono una disseminazione dei testi poetici in originale e in traduzione quasi in tempo reale, raggiungendo migliaia di lettori in tutto il mondo.
Oltre a ciò, la scrittura poetica può naturalmente funzionare come strumento terapeutico per chi, tra i tanti impegni della quotidianità bellica, riesce anche a trovare il tempo per dedicarsi alla parola. Dal 24 febbraio, infatti, ma portando avanti una linea che la letteratura ucraina si era trovata a dover far sua dopo che la Federazione russa aveva occupato la Crimea e provocato la guerra nel Donbas nel 2014, la poesia ucraina è comprensibilmente dominata dalle devastazioni e dalla sanguinosa assurdità del presente. E in questo la poesia ci mostra il suo inscindibile legame con la realtà, il suo esserne allo stesso tempo una chiave di lettura e un frutto della sua brutalità. La scrittura poetica di oggi è incomprensibile al di fuori del suo nesso con le vicende biografiche dei suoi autori e delle sue autrici.
Si pensi a Ija Kiva, una delle voci più intense della poesia ucraina contemporanea, costretta nel 2014 all’età di trent’anni a lasciare Donec’k, la sua città, per trasferirsi a Kiev. Ma alla fine di febbraio neanche Kiev/Kyjiv era più un luogo sicuro e Kiva, come molti altri abitanti dell’Ucraina orientale, si è ritrovata a dover nuovamente cercare qualcosa che assomigliasse a una casa, ancora più a ovest. In una poesia dell’inizio di marzo, Kiva, poetessa bilingue, definisce la sua lingua e quella delle altre poetesse e degli altri poeti con cui si trova a condividere la sorte una “chat di volontari e profughi / in cui le sirene cantano canzoni a Odisseo”. Non c’è più alcuna differenza tra esistenza, scrittura poetica e lotta quotidiana. L’idea di una presunta astrazione della poesia della vita, forse ereditata in un paese come il nostro da programmi scolastici poco attenti a determinate sensibilità, è radicalmente messa in crisi, almeno in un contesto come quello bellico ucraino. Molte delle liriche scritte e pubblicate online in Ucraina negli ultimi mesi si presentano come delle istantanee dell’orrore della guerra e dell’occupazione. Ma, come ricorda la stessa poesia di Kiva scritta ora in russo ora in ucraino a partire dal 2014, la guerra in Ucraina non è una novità: l’esperienza della perdita e del distacco forzato dalla propria casa, dalla propria vita e dalla propria famiglia è per molti ucraini dell’est del paese una realtà vissuta quotidianamente da più di otto anni.
Ilya Kaminsky, poeta americano di origine ucraina, ha di recente pubblicato sulla Paris Review un’intervista ai cosiddetti “poeti di Bucha”, quella verde cittadina poco lontano dalla capitale diventata a inizio aprile un simbolo della barbarie dell’invasione russa, a cui sembra che una parte consistente dell’opinione pubblica e della classe dirigente internazionale si stia pericolosamente abituando.
Una delle voci più note della poesia di Bucha è Lesyk Panasjuk, un poeta della generazione più giovane, nato nei mesi della caduta dell’Unione Sovietica. La Buča che Panasjuk ha ritrovato dopo la liberazione della città da parte dell’esercito ucraino è l’incarnazione di una distopia. In una lunga poesia, pubblicata ancora in marzo, il lettore è confrontato con la continua ripetizione all’inizio di ogni strofa del verso “i soldati russi”, seguito dalla descrizione degli orrori compiuti da questi ultimi ai danni del presente, del passato e del futuro degli ucraini. La crudezza del linguaggio poetico di una lirica come questa sembra trovare un corrispettivo tematico nella scena del rogo dei libri a cui è dedicata una delle strofe, con la storia della poesia ucraina dagli anni Sessanta a oggi che si trova a diventare cenere perché i soldati russi possano accendere un fuoco per cucinare.
Arriverà forse un giorno in cui anche in Ucraina la scrittura e la poesia potranno diventare un hobby o una professione, non costretti ad avere un legame così forte con la storia e la contemporaneità. Per il momento, invece, tanto la necessità di scrivere per fissare una perdita quanto quella di mettere le proprie mani al servizio non solo della penna, ma anche della “spada”, sono una realtà da cui non ci si può sottrarre.