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Qishloq, il secolo sovietico in una valle dell’Asia centrale

Intervista allo storico Niccolò Pianciola sulla pluriennale ricerca di Sergej Abašin, la storia dell’Asia Centrale sovietica vista da un villaggio.

15 giugno 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:07

Giulia De Florio conversa con Niccolò Pianciola, storico dell’Università di Padova e membro del consiglio direttivo di Memorial Italia, sul libro di Sergej Abašin Qishloq. Il secolo sovietico in una valle dell’Asia centrale, Roma, Viella, 2022.



Come e quando è nata l’idea del libro di Sergej Abašin che hai appena curato per Viella?


Si tratta della traduzione italiana – in una versione ridotta dall’autore stesso – di Sovetskij kišlak: meždu kolonializmom i modernizaciej [Il kišlak sovietico: tra colonialismo e modernizzazione] (Mosca, 2015), la più importante monografia storico-antropologica sull’Asia Centrale che sia stata scritta in Russia negli ultimi trent’anni. Il libro, tradotto da Emanuela Guercetti, è frutto della pluriennale ricerca di Sergej Abašin che si è sviluppata durante due periodi: il primo, più lungo, intorno alla metà degli anni Novanta; il secondo più breve nel 2010. È un lavoro significativo non soltanto per la sua qualità, ma anche perché è pienamente inserito nel dibattito antropologico e storiografico internazionale.


Che cosa significa Qishloq e perché Abašin lo ha scelto come “protagonista” del suo studio?


Qishloq in uzbeco significa villaggio. L’oggetto della ricerca è infatti Ošoba, un grosso villaggio uzbeko in Tagikistan, nella valle del Fergana, abitato alla fine del secolo scorso da circa 700 famiglie. Il fatto che ci siano villaggi uzbechi in Tagikistan non deve far pensare che Lenin e Stalin abbiano tracciato i confini delle repubbliche centroasiatiche con l’esplicito intento di ingarbugliare i confini amministrativi per meglio dominare le diverse popolazioni, insomma un divide et impera sovietico, come si sente molto spesso ripetere. In realtà, i confini delle “repubbliche nazionali sovietiche” nella regione sono stati tracciati negli anni Venti sulla base delle divisioni etniche della popolazione rurale così come erano interpretate da etnografi e amministratori centroasiatici, che organizzarono indagini etnografiche allo scopo. Non fu però sempre possibile rispettare questo criterio, per ragioni legate ad esempio alla gestione delle risorse idriche e alla posizione delle vie di comunicazione. Dunque, in tutte le repubbliche sovietiche tra cui venne divisa l’Asia Centrale rimasero significative minoranze la cui etnicità coincideva con la “nazione titolare” degli stati confinanti: Ošoba è uno di quei casi. Il villaggio si trova nella valle del Fergana, il centro demografico ed economico dell’intera Asia Centrale, divisa nel 1924 tra Uzbekistan, Tagikistan (allora una “repubblica autonoma” all’interno del primo) e Kirghizistan.


Qual è l’approccio seguito da Abašin e in che modo si è evoluta, a livello metodologico, la storiografia che tratta il periodo sovietico?


Lo studio di Abašin è ormai molto lontano dall’approccio dell’etnografia tardosovietica, alla cui scuola si era formato. Abašin si è lasciato alle spalle sia la fiducia della prima antropologia sovietica in un progresso lineare in cui le “sopravvivenze” culturali di epoche passate non possono che essere un fenomeno temporaneo, sia il superficiale giudizio degli etnografi del periodo gorbacioviano su una vittoria della “tradizione” e sul fallimento della modernità sovietica. L’antropologo investiga invece i significati di rapporti e figure sociali prerivoluzionarie in una società trasformata dalle nuove istituzioni sovietiche e dalle nuove gerarchie attribuite dallo stato alle diverse sfere del sociale. Paradigmatico in questo senso il capitolo sui “discendenti dei santi” e le loro variegate categorie di gruppo. Tra l’altro Abašin mostra come queste ultime abbiano significati e relazioni gerarchiche differenti in diverse regioni dell’Asia Centrale. Un’altra prova, per l’etnografo moscovita, della necessità di abbracciare uno sguardo “locale”. Lo “sguardo locale” di Abašin è un approccio etnografico o microstorico grazie al quale la “descrizione densa” alla maniera di Geertz delle strategie di attori sociali, e dei significati che essi attribuiscono alle categorie riferite a una comunità limitata, permette di analizzare le questioni della continuità e del cambiamento nei rapporti di potere e status, e nelle pratiche culturali. Questo approccio permette inoltre di studiare la “sovieticità” e “colonialità” delle diverse generazioni della comunità di Ošoba contestualizzando emozioni, lealtà, uso dell’ideologia, ruoli di genere.


A quali domande tenta di rispondere lo studio di Abašin e quali temi invece tralascia e andrebbero indagati?


Una domanda importante cui Abašin risponde è quella che è stata ben formulata da Artemy Kalinovsky in una recensione a Sovetskij kišlak: “C’era una differenza tra sovieticità e russità/europeità? Se è così, questo implica che l’Urss stava davvero creando qualcosa di nuovo che andava oltre l’imposizione di pratiche e forme di conoscenza ‘occidentali’ nella loro permutazione sovietica. Se non è così, questo significa che al massimo l’Unione Sovietica creò possibilità di coesistenza che forse non erano così diverse da altri contesti imperiali”. La risposta di Abašin all’interrogativo è senz’altro positiva: a differenza di altre “formazioni imperiali”, il progetto sovietico di uniformazione a modelli culturali comuni, e il senso di appartenenza che riuscì a creare nel periodo postbellico rendono l’esperienza dei cittadini tardosovietici decisamente diversa da quella dei sudditi dei moderni imperi coloniali. Sebbene Abašin noti come la maggioranza degli abitanti di Ošoba che lui aveva conosciuto negli anni Novanta rifiutasse la categoria di “colonialismo” riferita al periodo sovietico, l’etnografo moscovita ritiene che l’Urss conservò sempre anche una dimensione imperiale. Tale persistenza è sottolineata anche da altri studi che hanno invece per oggetto contesti urbani, come il libro che Marco Buttino ha dedicato a Samarcanda nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. È vero che, pur in un libro già imponente, alcuni aspetti della vita sociale del villaggio restano fuori dallo studio di Abašin. Non si parla, per esempio, della questione dell’educazione, della scuola, e della parziale russificazione che era un aspetto importante dello sviluppo di una comune cultura sovietica nelle diverse regioni dell’Unione; né si analizzano le trasformazioni dell’economia agricola.


È possibile che una “microstoria” come quella di un villaggio dell’Asia centrale possa aiutare a capire i meccanismi che regolavano il sistema di potere sovietico e, in definitiva, il funzionamento dell’intera URSS?


Assolutamente sì. Quest’opera è, in un certo senso, una microstoria del “secolo sovietico”. Questo rende il libro molto interessante, io credo, anche per chi non sia specificamente incuriosito dalla storia dell’Asia Centrale. Così come in quello sui “discendenti dei santi”, anche negli altri capitoli Abašin analizza categorie e istituzioni nella concretezza delle diverse configurazioni di potere nei vari periodi della storia sovietica, guardando a come furono plasmate da decisioni prese al Cremlino, dalle diverse fasi delle politiche economiche, e dalle personalità che ricoprivano cariche amministrative a livello locale. Abašin riesce a mostrare come le categorie introdotte dal potere sovietico diventino “emiche”, ovvero siano interiorizzate dagli attori e ne influenzino l’agire sociale, “ibridando” concetti, valori, e simboli di status precedenti alla creazione del sistema, culturale e di potere, sovietico. Del resto, le facce dello stato comunista nel villaggio nei diversi periodi sono immerse nella società di Ošoba. In questo senso è emblematica la figura del “piccolo Stalin”, Ortyk Umurzakov, protagonista di uno dei capitoli. In un libro che copre tutta l’era sovietica, il lettore di fatto non si imbatterà mai in un nome russo. Gli attori sono tutti centroasiatici: i costruttori della nuova società sovietica, gli interpreti dei nuovi linguaggi, gli oppressori, le vittime, gli amministratori. Naturalmente ciò non esclude che, in alcuni periodi, specifiche politiche decise a Mosca non fossero distruttive per gran parte della popolazione di alcune regioni. I kazachi, in particolare, andarono incontro a una ecatombe per fame all’inizio degli anni Trenta, durante una carestia provocata dalle politiche estrattive del nascente sistema economico e sociale staliniano impegnato in un caotico e feroce consolidamento.


Quali sono, secondo Abašin, le differenze fondamentali nei vari periodi storici che affronta (anni Venti e Trenta, post-stalinismo, era brežneviana etc.) dal punto di vista dell’appropriazione e negoziazione dell’identità sovietica?


Questo è un aspetto importante perché secondo me è proprio lo sguardo di medio-lungo periodo di Abašin, che abbraccia anche la lunga stagione post-staliniana, a rendere la sua analisi originale e importante. Sebbene “sovietizzazione” dall’alto e appropriazione e negoziazione dell’identità sovietica dal basso ebbero un loro corso fin dagli anni Venti, Abašin mostra come sia stato il periodo post-staliniano ad essere cruciale per la “normalizzazione della sovieticità” in Asia Centrale, ancora più della Seconda guerra mondiale. Fu negli anni Sessanta che la scolarizzazione elementare e i servizi del rudimentale welfare sovietico (ad esempio la sanità pubblica) raggiunsero quasi tutte le fasce della popolazione, anche quella rurale delle zone più isolate. La fine del periodo chruščëviano e l’inizio di quello brežneviano furono uno spartiacque storico anche per le trasformazioni del paesaggio agrario e per lo sfruttamento delle risorse, in primis idriche. Come altre ricerche hanno messo in rilievo, è stato tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta che in Asia Centrale iniziò un enorme incremento della superficie messa a coltura, grazie alla frenetica espansione dei canali di irrigazione a tutti i livelli: dal gigantesco canale Qaraqum, che finì per essere il fattore più importante nel processo di disseccamento del Mare d’Aral, ai piccoli canali costruiti dai kolchoziani. Ancora una volta, la microstoria kolchoziana di Abašin fornisce un nuovo punto di vista su un vasto macroprocesso, mostrando come fosse l’iniziativa dal basso di presidenti di kolchoz decisi a espandere la propria rete di irrigazione che portò alla costruzione di canali né pianificati né tanto meno approvati dalle istanze amministrative superiori dell’economia di comando sovietica. Queste ultime, per lo meno nel caso studiato da Abašin, si limitarono a “legalizzare” quanto era stato fatto, e a convogliare ulteriori investimenti nell’area proprio grazie ai lavori “illegali” realizzati dagli intraprendenti direttori delle fattorie collettive. Insomma, grazie sia al suo “sguardo locale”, sia al fatto che abbraccia quasi cent’anni, il libro di Abašin riesce ad essere molto di più di un’etnografia storica di un villaggio. È la storia dell’Asia Centrale sovietica vista da un villaggio: la microstoria di Ošoba finisce per fornire al lettore uno sguardo diverso sulla più generale storia sovietica.

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Raccolta fondi per i prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa.

Memorial Political Prisoners Support aiuta da tempo in modo autonomo i cittadini ucraini detenuti nelle carceri delle Federazione Russa per ragioni di carattere politico. Al momento la situazione è ulteriormente peggiorata e per questo motivo l’associazione desidera chiedere sostegno anche attraverso la rete dei Memorial europei, promuovendo una campagna di raccolta fondi. Le donazioni saranno destinate alla copertura delle spese legali e alla fornitura di aiuti umanitari. I prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa hanno bisogno di assistenza legale, hanno bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto hanno bisogno di non essere dimenticati. Per maggiori informazioni e per contribuire –> Urgent appeal: help Ukrainian prisoners in Russia – Поддержка политзаключённых. Мемориал. Appello urgente: raccolta fondi per i prigionieri ucraini detenuti nella Federazione Russa. La tragedia dei prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa si consuma tra le pressioni degli agenti di sicurezza, condizioni di detenzione disumane, torture e processi già decisi. “In cella non c’erano né acqua, né gabinetto, né brande; dormivamo su tavolacci di legno. Alla latrina comune non ci portavano tutti i giorni, e comunque sempre col tempo contato. Giorno e notte si sentivano le urla dalla stanza delle torture: non c’era modo di tranquillizzarsi o di raccogliere i pensieri. Una volta ho sentito trascinare qualcuno fuori da una cella vicina, poi uno sparo. Le guardie ci dicevano che presto sarebbe toccato anche a noi, che eravamo troppi.” A questo clima di terrore spesso si aggiunge la totale assenza di contatti con i propri cari. La corrispondenza, l’invio di pacchi e le visite – rari momenti di sollievo nella prigionia – sono per molti detenuti ucraini difficilissimi, se non impossibili da ottenere. Trovare e poter pagare un avvocato indipendente, che svolga il proprio lavoro con coscienza, sostenga il suo assistito e ne difenda i diritti, è un’impresa altrettanto ardua. Riusciamo ancora a offrire questo tipo di supporto, ma ora più che mai abbiamo bisogno del vostro aiuto per andare avanti. Per garantire assistenza legale e aiuti umanitari ai cittadini ucraini detenuti nella Federazione Russa per motivi politici servono 38.000 euro. È una cifra considerevole, ma siamo migliaia anche noi che sosteniamo i prigionieri ucraini. In fondo, basterebbe che 3.800 persone donassero 10 euro ciascuna. Questa volta, però, non vi chiediamo solo una donazione. Vi invitiamo a parlare di questa raccolta fondi alle persone di cui vi fidate: amici, familiari, compagni di emigrazione e colleghi. L’appello è disponibile anche in inglese: potete condividerlo anche con chi non parla russo. A chi sono destinati i fondi? A causa degli alti rischi cui sono esposti i prigionieri ucraini nelle carceri della Federazione Russa molte richieste di aiuto ci arrivano in forma anonima. Possiamo condividerne solo alcune, a titolo esemplificativo. Aiuti umanitari Inviamo regolarmente pacchi a decine di ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa: cibo, medicinali, libri, sigarette, articoli per l’igiene, vestiti, scarpe – beni di uso quotidiano che in carcere diventano inaccessibili. Sergej Gejdt: “Vi scrivo per chiedervi aiuto. Se riusciste a mandarmi qualcosa da mangiare e delle sigarette ve ne sarei immensamente grato. I miei hanno problemi di soldi, mi pare di capire, e neanche io ho modo di chiedere a loro di darmi una mano, non avendo nessuno cui scrivere o che possa informarli che non ho più nulla. Il problema è che con i pochi rubli che avevo sul conto ho ordinato l’indispensabile: quel poco per lavarmi… E per il cibo non mi è rimasto nulla. Qualche compagno, per fortuna, mi dà una mano come può. Grazie infinite per il vostro tempo e per aver letto la mia richiesta.” Janina Akulova, condannata a nove anni di colonia penale a regime ordinario e a una multa di 700.000 rubli, chiede aiuto per un’altra detenuta: “C’è una ragazza qui che ha urgente bisogno d’aiuto, non ha letteralmente nulla. Noi cerchiamo di tenere duro, ma lei è messa davvero male. Dico sul serio: non ha niente di niente, neppure l’essenziale per lavarsi. Le abbiamo dato quello che potevamo, ma… potete ben capire.” Per continuare a spedire pacchi, servono attualmente 3.320 euro. Assistenza legale Non possiamo divulgare l’identità dei prigionieri ucraini che difendiamo legalmente: metteremo a rischio loro e i loro avvocati. Attualmente sono decine gli uomini e le donne – già condannati o in attesa di giudizio – che dipendono dal nostro aiuto. Quello che gli ucraini sono costretti a subire nelle carceri russe è sconvolgente anche per chi credeva di conoscere bene la brutalità del sistema. Condizioni inumane, torture, violenza oltre ogni limite. Benché, in assenza di un processo equo, un avvocato non possa garantire la liberazione di un innocente, il suo lavoro resta fondamentale. L’avvocato tutela i diritti del detenuto, richiama l’attenzione pubblica sul caso e, spesso, è l’unico interlocutore libero con cui il prigioniero possa comunicare direttamente, l’unico tramite per mantenere un legame con i familiari. Da mesi finanziamo gli avvocati che seguono decine di prigionieri ucraini. Molti casi durano da più di sei mesi e non accennano a finire. Per garantire assistenza legale ai prigionieri politici ucraini servono 31.300 euro. Totale della raccolta: 38.000 euro.Il 10% della somma sarà destinato a coprire le commissioni dei sistemi di pagamento e le perdite dovute alla conversione in rubli. Ogni donazione è importante! 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Il 23 maggio 2025 presso il tribunale militare di guarnigione di Rjazan’ il pubblico ministero Boris Motorin ha chiesto per Ruslan Sidiki una condanna a trent’anni di reclusione. Di Ruslan Sidiki, 36 anni e doppia cittadinanza, russa e italiana, abbiamo già avuto modo di parlare. Dopo di lui ha preso la parola Igor’ Popovskij, l’avvocato di Sidiki. Il difensore ha spiegato nel dettaglio perché la versione dell’accusa non corrisponde ai fatti e, perciò, a verità. Nei casi in esame la definizione giuridica delle azioni del suo assistito non può rientrare negli articoli riguardanti il “terrorismo”. Quanto da lui compiuto può far capo, piuttosto, alla categoria “sabotaggio”. In due punti, a sostenere le accuse di terrorismo sono le invenzioni degli inquirenti e le deposizioni estorte sotto tortura. L’avvocato Popovskij ha infine ricordato che, in base alla Convenzione di Ginevra e a quanto da essa affermato “in data 12 agosto 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra”, Ruslan Sidiki andrebbe considerato come tale. L’anarchico Ruslan Sidiki è stato alla fine condannato a 29 anni di carcere. Si tratta della pena più severa mai inflitta per azioni contro infrastrutture militari e, in genere, per azioni che non hanno causato vittime. È l’ennesimo atto intimidatorio contro i dissidenti. Riportiamo in italiano il testo dell’ultima dichiarazione pronunciata da Ruslan Sidiki prima della lettura della sentenza. Mi rincresce che le mie azioni abbiano messo in pericolo Bogatyrëv*, Tarabuchin** e Unšakov***. Non erano loro il mio obiettivo e sono lieto che la loro salute non abbia subito danni gravi. Il mio obiettivo erano i mezzi militari russi e gli anelli della logistica militare per il trasporto di mezzi e carburante. Era il modo che avevo scelto per ostacolare le operazioni militari contro l’Ucraina. Naturalmente la notizia di un’esplosione e il clamore suscitato possono spaventare le persone. Lo stesso vale per i missili che sorvolano le case e per le prime operazioni militari: anche loro hanno lo scopo di intimidire la popolazione del Paese contro cui tali azioni sono dirette. Come ho già ampiamente ripetuto, non era mia intenzione intimidire nessuno. Ho scelto io gli obiettivi: ho attaccato la base aerea militare con l’intento di distruggerne i velivoli. Ho fatto saltare il treno per mettere fuori uso la linea ferroviaria su cui avevo individuato un discreto movimento di mezzi militari. Vorrei che fosse chiaro che ho studiato attentamente il movimento dei treni sulla linea che ho fatto saltare per assicurarmi che non ci fossero treni passeggeri. Per maggiore sicurezza, ho controllato visivamente il tutto prima dell’esplosione. Se non mi importasse della vita altrui, avrei potuto far deragliare il treno senza un mio intervento diretto. Non ho avuto nulla a che fare con chi ha tentato di fabbricare, poi, un nuovo ordigno esplosivo per far deragliare un altro treno. L’esplosione dell’11 novembre 2023 aveva già suscitato molto clamore ed ero perfettamente consapevole che le misure di sicurezza sarebbero state rafforzate. Inoltre, avevo già la morte di mia nonna a cui pensare. Con la popolazione russa ho rapporti neutrali. Dal 2014 ho con loro alcune divergenze su certi fatti, ma non è, per me, un motivo sufficiente per odiare qualcuno. L’impossibilità di influenzare pacificamente le azioni di chi ci governa, così come il tribunale che attende coloro che non condividono la politica dello Stato inducono alcuni a lasciare il Paese e altri a restare e a passare all’azione. Indipendentemente dalla gravità del reato, l’uso della tortura durante gli interrogatori è inaccettabile in qualunque caso, se diciamo di vivere in uno Stato di diritto. Torturare con scariche elettriche e picchiare una persona legata sono atti riprovevoli in massimo grado, la cui responsabilità ricade non solo su chi ha applicato metodi in questione, ma anche su chi è consapevole che essi vengono usati, non li contrasta e, anzi, è complice nel tenerli nascosti. Concludo recitandovi un frammento di una poesia di Nestor Machno: Che ci seppelliscano anche subito: ciò che davvero siamo non diverrà Oblio, risorgerà al momento dovuto e vincerà. Ne sono certo, io. * Aleksandr Ivanovič Bogatyrëv, camionista presso la Avargard s.r.l.. Il 23/07/2023 trasportava erba falciata da un campo vicino al villaggio di Tjuševo, regione di Rjazan’. Uscendo su una strada sterrata vicino al campo, centrò con una ruota un drone esplosivo. Che scoppiò. Bogatyrëv non rimase ferito. ** Sergej Aleksandrovič Tarabuchin, assistente macchinista dello stesso treno. A seguito dello scoppio del finestrino, ha riportato graffi al viso e a un braccio. *** Dmitrij Nikolaevič Unšakov, macchinista del treno merci n. 2018, che l’11 novembre 2023 era ripartito dalla stazione di Rybnaja. Si trovava nella cabina di guida al momento dell’esplosione sui binari. A seguito dell’esplosione ha riportato escoriazioni alla mano.

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