Tanto da qui non schiodiamo. Attivisti, giornalisti e militanti per i diritti umani continuano a lavorare in Russia

Ivan Astašin, Katrin Nenaševa, Dmitrij Ivanov. Perché non vogliono lasciare la Russia e cosa sperano di cambiare (Seconda parte)

13 giugno 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:06


Il presente articolo è stato pubblicato originariamente in russo su The Insider, l’originale può essere consultato a questo link. Ringraziamo la redazione per l’autorizzazione a tradurlo in italiano. Tradotto da Luisa Doplicher, Sara Polidoro e Claudia Zonghetti.


Per timore di repressioni di massa, negli ultimi tre mesi decine di migliaia di persone hanno lasciato la Russia, condannando l’aggressione militare contro l’Ucraina. Eppure chi non teme di esprimere la propria opposizione resta e partecipa alle manifestazioni contro la guerra. Molti giornalisti, attivisti e militanti per i diritti umani vogliono continuare a lavorare in Russia nonostante le leggi repressive e la minaccia di processi penali. The Insider ha chiesto a Tat’jana Fel’gengauer, all’ex presidente del consiglio di Memorial Oleg Orlov, alla traduttrice Ljubov’ Summ, all’attivista per i diritti dei detenuti Ivan Astašin, all’attrice Katrin Nenaševa e allo studente-attivista Dmitrij Ivanov perché non vogliono lasciare la Russia e cosa sperano di cambiare restando qui. 


La prima parte dell’articolo, coi racconti di Tat’jana Fel’gengauer, Oleg Orlov e Ljubov’ Summ si trova qui. Pubblichiamo ora la seconda parte, con le dichiarazioni di Ivan Astašin, Katrin Nenaševa e Dmitrij Ivanov.


Ivan Astašin, attivista per i diritti umani. Foto di The Insider.

Ivan Astašin, attivista per i diritti umani, ex imputato nel processo all’Organizzazione bellica terroristica autonoma

Ivan Astašin è stato imputato nel processo alla cosiddetta «Organizzazione bellica terroristica autonoma» (AVTO) e ha trascorso oltre 9 anni nelle colonie penali di Krasnojarsk e di Noril’sk. Nel 2009 Astašin, allora diciassettenne, pubblicò su internet un video intitolato Auguri per il giorno del čekista, bastardi!, che mostrava un lancio di bottiglie molotov contro gli edifici della sezione dell’FSB nel distretto sudoccidentale di Mosca. I servizi segreti hanno ricollegato quest’episodio a una serie di altri incendi ed esplosioni avvenute a Mosca; tutti gli eventi sono stati portati a giudizio nel processo alla cosiddetta AVTO, di cui si è individuato il capo in Astašin. Questi ha ricevuto la condanna più dura di tutti gli imputati: 13 anni di carcere, poi ridotti a 9 anni e 9 mesi.


Liberato nel 2020, Astašin si è dedicato alla difesa dei diritti umani. Pur dovendo adeguarsi alle condizioni di una stretta libertà vigilata, il 27 febbraio Astašin ha partecipato a una manifestazione non autorizzata contro la guerra in Ucraina tenutasi a Mosca, dove è stato arrestato. Ha così attirato l’attenzione dei servizi segreti, che lo hanno già interrogato tre volte, «minacciandomi che avrei avuto problemi e sarei anche finito in carcere».



A settembre del 2020, subito dopo la mia liberazione, ho iniziato a lavorare nel Comitato per i diritti civili. A gennaio di quest’anno ho smesso e da allora mi occupo di diritti umani a titolo privato. Aiuto i detenuti nei casi di violazione dei loro diritti, dalle torture alle questioni mediche, dalle condizioni di detenzione a quelle in cui vengono tradotti da un luogo all’altro. Quando vengono mandati troppo lontano da casa, faccio in modo che scontino la pena in un luogo più vicino.


Ho aiutato molti ragazzi che erano in carcere con me a lasciare Krasnojarsk e Noril’sk per scontare la pena in un luogo più vicino a quello dove vivono; ora alcuni detenuti o i loro parenti mi trovano con il passaparola. Altri vengono a sapere di me tramite il canale Telegram o alcune pubblicazioni. A volte sono io a individuare i casi. È andata così, per esempio, con Konstantin Lakeev, imputato nel «Processo del palazzo» [serie di processi seguiti alle manifestazioni in 130 paesi a difesa di Naval’nyj e del video sul palazzo di Puškin N.d.T.] che è stato mandato a Krasnojarsk durante l’esame del ricorso in appello (cioè ancora prima che entrasse legalmente in vigore la condanna). È una cosa illegale, e mi era chiaro il modo di contrastarla. Mi sono unito al gruppo in suo sostegno e grazie a questi sforzi, compiuti insieme al suo avvocato, Kostja è ora di nuovo a Mosca, e il ricorso in appello avverrà in un tribunale moscovita.


Ho iniziato a studiare diritto nella colonia penale a Krasnojarsk. Quando mi sono ritrovato laggiù dovevo scontare ancora 12 anni e mezzo di carcere, e volevo in qualche modo accorciare questo periodo; sapevo che nella realtà russa ottenere un’assoluzione era impossibile, ma uno sconto di pena non sarebbe stato un problema. Quindi ho studiato il diritto penale e ho raggiunto il mio scopo: ho avuto uno sconto di pena di 2 anni e 3 mesi. In seguito ho aiutato altri detenuti. Oltre alle leggi russe ho iniziato a studiare le sentenze della Corte europea e verso la fine della pena ho presentato un appello anche là.


Per difendere i propri diritti nella colonia penale non è necessario essere un detenuto famoso (fino a quel momento non lo ero neanche io), perché la burocrazia funziona in entrambi i versi. A ogni invio di documenti in procura o in tribunale deve seguire una qualche reazione. L’amministrazione spreca molte risorse fra risposte, verifiche e ricorsi, ma in genere nelle colonie c’è un solo legale. Per questo a un certo punto, magari, vengono da te e dicono: «Facciamo così, tu non scrivi più e noi ti diamo quello che chiedi, ti lasciamo in pace». Nella mia esperienza in genere ha funzionato.


Dopo la liberazione mi sono trovato in libertà vigilata. Nel 2017 hanno apportato questa bella modifica che prevede un periodo di libertà vigilata per estinguere la pena dei colpevoli di crimini terroristici. Nel mio caso sono 8 anni, e il fatto che questa legge non esisteva all’epoca della mia condanna non interessa a nessuno.


In concreto, la libertà vigilata è un mezzo arresto domiciliare, perché dalle 22 alle 6 non posso lasciare la mia abitazione. Non posso trascorrere la notte fuori casa, fare un viaggio di lavoro e neanche andare alla dacia, perché non tornerei prima delle 22. In qualunque notte può arrivare un poliziotto a controllare se sono in casa. In genere vengono qualche volta al mese, ma durante le feste di Capodanno, per esempio, dall’1 all’8 gennaio, sono venuti ogni giorno. Inoltre sfruttano le videocamere con riconoscimento facciale. Quelle installate nella metropolitana, per esempio, inviano automaticamente le foto alla polizia, e se pure esco dalla stazione alle 21:50, poi mi chiedono se sono arrivato a casa in tempo.


Sono contro la guerra e ho deciso di esprimere la mia opinione di cittadino partecipando alla manifestazione del 24 febbraio a Mosca. Se fossi andato a una manifestazione di notte, avrei rischiato capi d’accusa fino all’articolo 314.1 del Codice penale (più o meno: «Violazione della libertà vigilata»), ma in sé non mi è vietato partecipare a eventi di massa.


[Quando mi hanno arrestato] la polizia ha deciso che, con una condanna per terrorismo, in ogni caso andavo trattenuto al comando di polizia per la notte; poi, violando la legge, mi hanno trattenuto per ventiquattr’ore. Non solo; dopo il processo, che mi ha condannato a una multa di 10 000 rubli [circa 150 €], mi hanno ricondotto al comando, perché volevano parlarmi funzionari che non si sono presentati (evidentemente erano dell’FSB o del Centro E [Direzione antiterrorismo]). Nel corso di un mese i dipendenti di queste strutture hanno parlato con me tre volte, mi hanno minacciato dicendo che avrei avuto problemi e sarei anche finito in carcere, e il 18 marzo senza nessun motivo mi hanno arrestato e mi hanno trattenuto un giorno al comando di polizia, rilasciandomi poi senza verbale o documento di sorta.


Dopo quella manifestazione ho smesso di credere nelle proteste. Avrebbero potuto non arrestarci, perché c’erano pochissimi OMON [teste di cuoio], ma vedendo che la maggioranza della gente scappava, ci sono saltati addosso e ci hanno presi. Prima, invece, formavamo una catena fitta e non erano riusciti a beccare nessuno. Fare le corsette in centro per sfuggire agli OMON non è manifestare. Se uno va a una manifestazione non autorizzata deve capire che può essere arrestato. Allora perché scappare? A me non interessava correre a destra e a manca, ero andato conscio dei rischi e delle conseguenze. D’altro canto, è altrettanto stupido rimanere fermi se la maggioranza della gente scappa.


Non sono andato alle manifestazioni seguenti. Non mi sono piaciute neanche le immagini che ne ho visto, in cui alcuni vengono picchiati e caricati mentre altri scappano oppure si limitano a star lì e filmano la scena. Secondo me nelle manifestazioni dovrebbe esserci una tattica identica per tutti, che non funziona se alcuni formano una catena mentre altri scappano. Inoltre, posso capire che la gente si spaventi quando vengono usati manganelli o pallottole di gomma, ma qui basta che due OMON si mostrino per strada perché cento persone si mettano le gambe in spalla. Non ho voglia di partecipare a cose del genere.


Non penso che a breve termine ci saranno proteste di massa e credo che il regime continuerà a inasprirsi. Sarà sempre più difficile difendere i diritti umani; anzi, non sono nemmeno sicuro che rimarrà possibile. In primo luogo il regime colpirà gli avversari palesi: gli attivisti politici e civili. Quando non ce ne saranno più (e ormai manca poco), il regime passerà a occuparsi di altri gruppi: potrebbero essere i giornalisti, i difensori dei diritti umani, gli artisti e i musicisti. Questo fenomeno è già in corso, ma penso che la repressione sarà ancora più dura.


Le forze di sicurezza («siloviki») formate per combattere la dissidenza non hanno alcuna scelta: se pure emigrassero tutti gli attivisti politici e civili, i «siloviki» dovrebbero cercare l’estremismo da un’altra parte.


Non sono sicuro che lascerei la Russia se non fossi sotto libertà vigilata. Da un lato, in un caso simile avrei meno rischi e più possibilità. E fino a un certo momento varrebbe forse la pena di rimanere in Russia e fare ancora qualcosa. D’altro lato, è impossibile prevedere con esattezza quando arriverà quel momento. Dopotutto le cause penali sono intentate senza preavviso.


Katrin Nenaševa
Katrin Nenaševa, artista. Foto di Dmitry Rozhkov.

Katrin Nenaševa, artista, attivista, operatrice sociale

Katrin Nenaševa si occupa di attivismo artistico e promuove in Russia il movimento psicoattivista, che combatte la stigmatizzazione delle malattie mentali. Le sue performance per le strade affrontano i problemi di categorie vulnerabili e stigmatizzate: le detenute («Non aver paura»), i residenti degli ospedali psiconeurologici («Tra qui e là») e le vittime di tortura («Carico 300» [nome in codice del trasporto di soldati feriti]). Nel 2018, insieme al compagno, anche Nenaševa ha subìto torture nel territorio dell’autoproclamata DNR [Repubblica Popolare di Doneck], a opera di militari e poliziotti del Doneck.


Il 3 marzo Nenaševa ha svolto nel centro moscovita Spazio aperto la performance «Cena pacifica». Ha proposto agli interessati di riunirsi, cucinare, mangiare insieme e condividere le proprie preoccupazioni. I «siloviki» sono arrivati e hanno fermato Nenaševa con l’accusa di «insubordinazione alle forze dell’ordine», benché lei ottemperasse a tutte le loro richieste; l’indomani il tribunale l’ha condannata a 14 giorni di reclusione.


Faccio parte della Resistenza femminista antibellica (FAS), in cui mi occupo di aspetti organizzativi, contribuisco a ideare nuove iniziative e gestisco un numero verde di aiuto psicologico per gli attivisti. Dirigo inoltre il gruppo «Io resto qui», sorta di comunità per chi si ritiene membro della società civile. Ci incontriamo di persona a Mosca, a volte discutiamo di che cosa possiamo darci l’un l’altro in quanto attivisti e difensori dei diritti umani e di quali difficoltà dobbiamo affrontare.


Al contempo lavoro nel fondo di beneficenza «Cammino di vita», che aiuta i residenti degli ospedali psiconeurologici e le persone neuroatipiche. Seguo inoltre il progetto «Adolescenti e gatti», che aiuta i ragazzi con dipendenze o con difficoltà nello sviluppo psichico. A marzo siamo diventati un servizio di assistenza psicologica di emergenza, i nostri psicologi hanno sostenuto ragazzi di tutta la Russia e perfino dell’Ucraina.


Ora molti adolescenti subiscono una forte pressione a casa e a scuola. Spesso la guerra scatena conflitti tra familiari; è successo che, per diversità di vedute sull’accaduto, i ragazzi siano stati cacciati di casa, ritrovandosi senza un posto dove andare. Trovo scandaloso che si possa scacciare un ragazzo solo perché capisce che è in corso una guerra e ne soffre.


In Russia non esistono case famiglia per minorenni vittime di violenza o cacciati di casa, e ufficialmente è impossibile creare strutture del genere. Le autorità tutelari possono rimandare il ragazzo in famiglia, ma se lui si oppone o se i genitori chiedono di rinunciare alla patria potestà, viene inviato nei cosiddetti «centri sociali», simili più che altro a ospedali psichiatrici o a carceri speciali. Là i ragazzi non hanno alcuna comunicazione con il mondo esterno; la cosa più terribile è che, siccome in queste strutture stanno peggio che per strada, i ragazzi in difficoltà non vogliono farsi aiutare.


Al momento, anche i residenti degli ospedali psiconeurologici si sentono ancora più rinchiusi nel sistema, che già prima era repressivo e non permetteva di sviluppare la personalità e di condurre una vita completa. Poiché oggi molta gente lascia il paese, gli ospiti di quelle strutture ricevono ancora meno visite. Diminuiscono le loro possibilità di socializzare e interagire con persone esterne, che è una cosa importantissima.


È già successo che residenti degli ospedali psiconeurologici fossero disposti a forma di Z e fotografati. La propaganda influenza anche loro; in quelle strutture nessuno può sfuggirle, tranne i volontari, sempre meno numerosi. Molti residenti hanno un telefono, ma pochi sono capaci di interpretare correttamente le informazioni trovate su Internet. Hanno bisogno di comunicare con varie persone che spieghino in essenza che cosa succede, come leggere le notizie e come trovare fonti di informazione.

Già da un mese, non solo i residenti degli ospedali psiconeurologici, ma tutte le persone affette da malattie mentali risentono della scarsità di medicine straniere, scomparse dal mercato russo. So che alcuni pazienti, con tutto quello che succedeva, hanno subìto un netto peggioramento. E non solo perché ci troviamo in guerra e temono costantemente per il proprio futuro, ma anche per l’assenza di determinati farmaci.


La FAS gestisce un numero verde di aiuto psicologico cui si rivolgono moltissime persone. Diverse ragazze hanno pensieri suicidi. Secondo me la guerra ci uccide mentalmente, proprio così, sì, oltre che fisicamente. Purtroppo non esistono statistiche accessibili sull’andamento del numero dei suicidi dall’inizio delle operazioni belliche, ma per quanto ne so tramite le organizzazioni di psicoattivisti, a marzo si è già ucciso un certo numero di persone. In parte a causa della guerra: non sapevano più che cosa fare e i problemi si accumulavano.


Il bot della FAS riceve molte idee, c’è addirittura una rubrica apposita. Tra le altre iniziative, per esempio, la FAS ha lanciato il Congedo per malattia contro la guerra. Un po’ di giorni fa ha proposto che, in segno di protesta, tutti si firmassero da soli un certificato e si mettessero in malattia dal 18 al 24 aprile. A sua volta, il Congedo per malattia contro la guerra ha uno spin off: il Fondo contro la guerra. Questo aiuta chi viene discriminato sul lavoro per via delle proprie opinioni politiche, viene licenziato illegalmente o non riceve indennizzi; il Fondo sostiene inoltre chi vuole organizzare sindacati o scioperi, ma non sa come fare. Presto la FAS aprirà una sezione distinta di volontariato, intesa ad aiutare i profughi deportati in Russia contro la loro volontà.


Al momento la comunità degli artisti si è divisa in due. Una parte tace semplicemente perché è andato perso il linguaggio dell’espressione artistica, perché le categorie estetiche precedenti non funzionano più. Questi artisti (in cui rientro anche io) sono in cerca di un nuovo linguaggio e di nuove forme di interazione. Ci chiediamo tutti: «Se, come pensava Adorno, la poesia è impossibile dopo Auschwitz, in che misura è possibile l’attivismo artistico in un periodo di guerra e di repressione?».


L’altra parte è costituita da artisti che continuano a esprimersi attivamente. Molti artisti di strada che seguo lavorano tuttora. Creano una gran quantità di opere di protesta in forma grafica e pittorica. In questo caso l’attivismo artistico non prende solo l’aspetto di performance, ma anche di pratiche artistiche più tradizionali. Al contempo si tratta perlopiù di arte anonima, e non è ben chiaro come valutarne l’efficacia.


A mio parere, il processo a Saša Skočilenko intimidirà molti attivisti e attiviste (incluse persone che si occupano di arte). Dopo quel processo, infatti, è ancora più difficile individuare come agire in maniera davvero viva e attuale senza correre rischi.


Intendo creare una sorta di comunità o laboratorio artistico in cui riunire artisti e artiste che non hanno lasciato la Russia, e discutere con loro di come si modificherà la nostra maniera di esprimerci. Non so che cosa succederà ma, almeno adesso, in questa fase della guerra, svolgere iniziative di volontariato, di assistenza sociale e di attivismo mi pare molto più importante ed efficace dei progetti artistici. Vedo che alcuni artisti e artiste fanno volontariato o diventano operatori sociali; secondo me è questo che potrà mobilitarci e tenerci a galla.


Dopo due settimane in un carcere speciale ho riflettuto molto sul motivo per cui non emigro. Rimango perché la Russia è il mio paese, e perché non ho eletto io questo governo e questo presidente. Da quando ho iniziato a occuparmi di progetti artistici, di attivismo e assistenza sociale, per quanto possibile mi sono sempre sforzata di contrastare questo regime e di costruire una comunità di sostegno e aiuto reciproco. Rimango perché molte persone hanno bisogno del mio aiuto, come gli adolescenti e i residenti degli ospedali psiconeurologici, e non mi sento in diritto di abbandonarli.


Allo stesso tempo ho alcuni valori importanti che mi aiutano a rimanere qui. Uno di questi è la verità. Voglio trasmetterla in varie forme, comunicare con varia gente e scrivere come la penso. Un altro valore è la compartecipazione. Per me è importante partecipare ai cambiamenti storici che ci attendono e che sono già iniziati. Inoltre ho anche il valore della responsabilità, e voglio dimostrare a me stessa che, di conseguenza, ho continuato a lottare.


Dmitrij Ivanov. Foto del canale Telegram “Tjuremnyj MGU” (MGU in carcere).

Dmitrij Ivanov, studente al quarto anno della facoltà di Matematica computazionale e cibernetica dell’Università di Mosca (MGU), attivista, creatore del canale Telegram «MGU protestataria»

Dmitrij Ivanov dirige il canale Telegram «MGU protestataria», che ha oltre 9800 abbonati. Dmitrij lo descrive così: «Parlo di problemi didattici e studenteschi e di politica russa, trasmetto in diretta dalle manifestazioni e dai processi».


Nel 2021 Dmitrij Ivanov è stato fermato per 30 giorni per aver partecipato a una manifestazione a sostegno di Aleksej Naval’nyj; non appena rilasciato dal carcere speciale è stato condannato ad altri 10 giorni per insubordinazione alle forze dell’ordine mentre scontava la pena. A marzo del 2022 ignoti gli hanno tracciato sulla porta di casa una scritta in vernice bianca: «Non tradire la patria, Dima», e qualche lettera Z.


Dal 2017 mi occupo di attivismo civile e dal 2018 dirigo il canale «MGU protestataria». Ho avuto l’idea di crearlo quando gli studenti della MGU si opponevano a che sotto le finestre dell’edificio principale venisse creato uno spazio per tifosi dei campionati di calcio del 2018. All’inizio tenevo il canale anonimamente, ma quando i «siloviki» hanno iniziato a mettermi sotto pressione ho capito che sarebbe stato meglio rivelare il mio nome e svolgere le stesse attività in maniera pubblica. Si tratta del mio canale personale, scrivo soltanto io. Mi aiutano alcuni amici, che però si limitano a correggere i refusi e a prendere le redini quando io non posso postare nulla (per esempio quando mi arrestano).


Non saprei dire quando ho iniziato a interessarmi di politica. Forse verso il 2014. Già all’epoca succedevano cose che non potevano passare inosservate, neanche da chi aveva 15 anni, che era la mia età di allora. La prima manifestazione cui ho partecipato in vita mia è stata «On vam ne Dimon» [contro Medvedev] del 26 marzo 2017. Già all’epoca ero iscritto al canale di Aleksej Naval’nyj e guardavo filmati su Medvedev, ma ero un po’ scettico. Credevo che non potessero esistere iniziative disinteressate. Avevo deciso di andare alla manifestazione per vedere che cosa succedeva, ma subito mi hanno preso e mi hanno caricato su un cellulare. Allora ho capito che dopotutto il confine doveva essere più netto di quanto credessi. Probabilmente chi carica persone che rispettano la legge e le butta dietro le sbarre sta per lo più dalla parte del torto.


Mi è capitato di subire minacce e violenze a opera della polizia. Ma è passato molto tempo, era il dicembre del 2018. Ho avuto un incontro indimenticabile con Aleksej Okopnyj, membro tristemente noto del Centro «E» [Direzione antiterrorismo]. Per 40 minuti ha cercato di farsi dare la password del mio telefono. Alla fine non c’è riuscito, ma in quel lasso di tempo, naturalmente, mi hanno mostrato il manganello e il macchinario per l’elettroshock, oltre a minacciare di uccidermi, violentarmi e chi più ne ha più ne metta. Come capirete, era una cosa tremenda, ma non molto efficace. Da quella volta è diventato più difficile spaventarmi perché Okopnyj ha già stabilito un certo standard.


In genere la polizia esercita una pressione di tipo formale-giuridico. Più volte hanno scritto nei verbali che ho violato l’articolo 20.2, parte 2 del Codice civile della Federazione russa (organizzazione di manifestazioni) con i miei post, e mi hanno arrestato all’uscita del mio palazzo all’indomani delle manifestazioni. All’epoca non avevo ancora imparato che in giorni simili non bisogna dormire a casa.


Nel 2019 ho organizzato una riunione a sostegno di Azat Miftachov, dottorando della facoltà di Meccanica e matematica dell’MGU. Lo hanno arrestato e torturato e volevano accusarlo di terrorismo, ma quando non ha confessato hanno ritirato l’accusa e subito l’hanno coinvolto in qualche vecchio processo penale per vandalismo. È stato un processo assolutamente scandaloso e creato dal nulla. Per di più c’era di mezzo l’MGU, si può dire che fosse un mio compagno, studiava nella facoltà accanto. Trovavo giusto che la comunità universitaria reagisse, e ci siamo radunati vicino al monumento a Lomonosov accanto all’edificio principale. Tutto è andato abbastanza bene, ma oltre a me ci sono stati due arresti: Nikita Zajcev e Konstantin Kotov, per cui in seguito è stato formulato il capo d’imputazione detto «di Dadin» [articolo 212.1 del Codice penale, riguardante la ripetuta violazione dell’ordine pubblico e l’organizzazione di manifestazioni.]


Nei miei cinque anni all’università (sono iscritto al quarto anno, ma ho ottenuto di ripetere l’ultimo) non ho avuto neanche un colloquio su temi politici con la direzione. Nell’edificio principale dell’MGU c’è un comando di polizia, dove ho passato una notte dopo la riunione a sostegno di Azat Miftachov. Dopo iniziative di protesta svoltesi nella zona dell’MGU qualche volta ho parlato con i poliziotti interni, ma la direzione della facoltà e dell’università non mi hanno mai interpellato al riguardo, cosa di cui sono gratissimo. Mi pare che l’MGU, per quanto sembri forse strano e paradossale, mantenga ancora un’atmosfera di libertà.


Da una parte c’è Viktor Antonovič Sadovničij, rettore del tutto inamovibile; nelle ultime elezioni è stato un personaggio di fiducia di Putin e i suoi comunicati sono da sempre favorevoli al governo: adesso la sua è la prima firma in calce alla lettera dell’Unione dei rettori a sostegno della guerra. Dall’altra parte questa sua attività pubblica non si traduce in una pressione esercitata su studenti e insegnanti. Certo, non ci permetteranno mai di lanciare corsi «inaccettabili ideologicamente» o di organizzare qualcosa di simile alla rivista DOXA. Ma negli anni, se la maggior parte delle università liberali è cambiata in peggio, nell’MGU non è successo niente: Sadovničij ha continuato a far circolare i suoi comunicati, mentre insegnanti e studenti hanno conservato la propria libertà. Forse nel periodo attuale questa è la situazione migliore.


Non saprei dire se il potere abbia paura degli studenti. Dopo il 24 febbraio è problematico già discutere di politica in termini almeno in parte razionali, perché Putin ci ha mostrato che vive in un mondo tutto suo, non ha paura di nulla e non ha assolutamente nessun freno. È chiaro che il motore delle proteste sono stati spesso gli studenti: persone giovani e attive, e dotate di un’istruzione di base, capiscono gli avvenimenti in corso e desiderano vivere una vita migliore. Adesso è comparsa un’ulteriore tendenza: le proteste femministe. L’abbiamo vista nelle manifestazioni in Bielorussia e oggi la riscontriamo in Russia.


Certo, sarebbe bello credere che, a prescindere da chi le anima, le proteste rimarranno sempre pacifiche. Per quanto attorno a noi avvengano cose terribili e a prescindere da come ci trattano, è importantissimo conservare la propria umanità e i principi umanitari, e sforzarsi di reagire con azioni pacifiche, se vogliamo un futuro migliore.


Apprezzo quanto sia buona e pacifica la nostra gente. Vedo persone che scendono in piazza con fiori e cartelli e, quando le arrestano, non perdono mai la propria dignità di esseri umani. Il nostro paese ha molte caratteristiche meravigliose, mentre quelle negative si concentrano nel Cremlino e alla Lubjanka. È sicuro che il potere cambierà, e secondo me ciò avverrà abbastanza presto. Le nostre iniziative non fanno che affrettare l’inevitabile.


Prima dell’inizio di questa guerra si poteva parlare di modificare il regime, di una qualche «operazione successore», ma ormai non sono più possibili trasformazioni graduali. Putin deve andarsene per motivi naturali, o lo scacceranno le proteste di piazza o un colpo di stato. A quel punto la Russia inizierà a cambiare. Inoltre, a prescindere da chi lo sostituirà, che sia un membro del sistema o dell’opposizione, è chiaro che bisognerà firmare la pace con l’Ucraina e iniziare trattative con l’Occidente per un ritorno alla vita normale. In seguito si avvieranno i processi di cui parlavamo in tempo di pace: la creazione di un sistema giudiziario indipendente e di un parlamento con funzioni reali, il ritorno a figure di potere che si avvicendano, la soppressione delle modifiche alla Costituzione. C’è molto da fare, ed è chiaro cosa. L’essenziale, a mio parere, è che la nostra società è pronta ad accettarlo.


Il 16 marzo 2022 mi hanno imbrattato la porta di casa con una bomboletta, lasciando una scritta in pessima grafia: «Non tradire la patria, Dima» e aggiungendo con la vernice bianca tre «svastiche» putiniane, le lettere Z. Io e mia madre siamo andati dal ferramenta e abbiamo comprato una bottiglia di acetone: è stato facile pulire la porta. La notizia si è sparsa parecchio, ho ricevuto molti messaggi di sostegno, ma anche qualcuno spiacevole.


Più o meno nello stesso periodo è capitato ad altre persone di trovarsi scritte simili: Olja Misik, attivista della «Protesta illimitata», che vive in una casa in affitto; Anja Pavlovaja, attivista di Alternativa sociale femminista, e Anja Lojko, giornalista di Sota. Qualche giorno dopo le scritte sono apparse anche da altri attivisti, benché la vernice fosse già diversa. Forse questi tentativi «intimidatori» non erano tutti collegati.


Non saprei dire chi potrebbe essere il responsabile. So che la grafia assomiglia a quella degli attivisti di SERB, movimento pro-Cremlino, ma a quanto pare l’intero gruppo è partito per il Donbass. Forse non sono andati tutti, e i responsabili sono quelli rimasti qui. O forse non sono stati loro ma degli emuli di un movimento analogo.


Alcuni membri di SERB sono venuti da me già nel 2019 e mi hanno messo una lapide nell’ingresso del palazzo. All’epoca c’era stato un flashmob in varie regioni russe in cui gli attivisti mostravano lapidi di Putin; evidentemente quelli di SERB avevano deciso che in qualche modo ero coinvolto anch’io. Le anziane del palazzo si erano spaventate, ma la cosa si era poi sgonfiata abbastanza presto.


Se quella gente non si fosse già interessata a me in passato, forse adesso mi spaventerei, invece penso: «È venuto qualche buffone e ha insozzato la porta. Pazienza. È spiacevole ma non sono che porcherie secondarie». Forse loro credono che sia la cosa giusta da fare, che siamo veramente «nemici», «traditori». Ma tendo piuttosto a credere che qualcuno abbia detto loro: «Andate a questo indirizzo e occupatevene, così poi vi diamo un dolcetto». Conosco la gente che scrive queste Z credendoci. Prima dell’inizio della guerra, in qualche manifestazione abbiamo interagito con il partito «L’altra Russia di Eduard Limonov». A differenza di tutta la gente normale, mi scuso per l’espressione, loro sostengono la guerra, ma in un modo sincero e del tutto diverso. E almeno hanno gli stencil per andare dritti quando scrivono.


È chiaro che chiunque ne abbia una possibilità anche minima riflette sull’idea di emigrare, sia pure in via ipotetica. Ma io non la considero neanche, perché questo è il mio paese, questa è la mia città, sono nato qui e ci sono sempre vissuto. Non capisco perché dovrei scappare. Secondo me è chi si macchia di crimini contro il nostro paese, contro la nostra gente e i nostri vicini immediati a dover subire una punizione o a dover scappare via, prima che la punizione arrivi. E siccome non hanno motivo di mettermi in galera, per ora non ha senso che emigri. Io la vedo così.

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Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria.

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige. A cura di Andrea Gullotta con traduzione di Giulia De Florio (Stilo Editrice, 2022). Il protagonista del libro di Irina Flige è Sandormoch (Carelia), la radura boschiva in cui, negli anni Novanta, Veniamin Iofe, Irina Flige e Jurij Dmitriev scoprirono la fossa comune dove era stata sepolta un’intera tradotta di detenuti del primo lager sovietico, sulle isole Solovki. Sandormoch è un luogo chiave per comprendere il ruolo della memoria storica nella Russia contemporanea e la battaglia ingaggiata dagli attivisti e storici indipendenti contro l’ideologia ufficiale. La scoperta di questa fossa comune e la creazione del cimitero commemorativo sono soltanto due “atti” della tragedia che ruota intorno a Sandormoch e che ha portato all’arresto e alla condanna di Jurij Dmitriev, attualmente detenuto in una colonia penale. Nella peculiare e coinvolgente narrazione di Flige, adatta anche a un pubblico di non specialisti, la memoria si fa vivo organismo, soggetto a interpretazioni, manipolazioni, cancellazioni e riscritture. Il trauma del Gulag si delinea così come il terreno di scontro tra uno Stato autoritario e repressivo e l’individuo libero che vuole conoscere la verità e custodire la memoria del passato. Irina Anatol’evna Flige (1960), attivista per i diritti civili e ricercatrice, collabora da anni con antropologi e storici per condurre ricerche legate alla scoperta e preservazione dei luoghi della memoria del periodo staliniano. Nel 1988 entra a far parte di Memorial, associazione all’epoca non ancora ufficialmente registrata. Ne diventa collaboratrice nel 1991 e dal 2002 ricopre la carica di direttrice di Memorial San Pietroburgo.

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Proteggi le mie parole

Proteggi le mie parole. A cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio con prefazione di Marcello Flores (Edizioni E/O, 2022). «Due membri di Memorial (l’associazione insignita nel 2022 del Premio Nobel per la Pace) – Sergej Bondarenko, dell’organizzazione russa, e Giulia De Florio, di Memorial Italia (sorta nel 2004) – ci presentano una testimonianza originale e inedita che getta una luce inquietante, ma anche di grande interesse, sul carattere repressivo dello Stato russo, prima e dopo il 24 febbraio 2022, data d’inizio della guerra d’aggressione all’Ucraina. La raccolta che viene presentata comprende le ‘ultime dichiarazioni’ rese in tribunale da persone accusate di vari e diversi reati, tutti attinenti, però, alla critica del potere e alla richiesta di poter manifestare ed esprimere liberamente le proprie opinioni» L’idea del volume nasce da una semplice constatazione: in Russia, negli ultimi vent’anni, corrispondenti al governo di Vladimir Putin, il numero di processi giudiziari è aumentato in maniera preoccupante e significativa. Artisti, giornalisti, studenti, attivisti (uomini e donne) hanno dovuto affrontare e continuano a subire processi ingiusti o fabbricati ad hoc per aver manifestato idee contrarie a quelle del governo in carica. Tali processi, quasi sempre, sfociano in multe salate o, peggio ancora, in condanne e lunghe detenzioni nelle prigioni e colonie penali sparse nel territorio della Federazione Russa. Secondo il sistema giudiziario russo agli imputati è concessa un’“ultima dichiarazione” (poslednee slovo), la possibilità di prendere la parola per sostenere la propria innocenza o corroborare la linea difensiva scelta dall’avvocato/a. Molte tra le persone costrette a pronunciare la propria “ultima dichiarazione” l’hanno trasformata in un atto sì processuale, ma ad alto tasso di letterarietà: per qualcuno essa è diventata la denuncia finale dei crimini del governo russo liberticida, per altri la possibilità di spostare la discussione su un piano esistenziale e non soltanto politico. Il volume presenta 25 testi di prigionieri politici, tutti pronunciati tra il 2017 e il 2022. Sono discorsi molto diversi tra loro e sono la testimonianza di una Russia che, ormai chiusa in un velo di oscurantismo e repressione, resiste e lotta, e fa sentire forte l’eco di una parola che vuole rompere il silenzio della violenza di Stato. Traduzioni di Ester Castelli, Luisa Doplicher, Axel Fruxi, Andrea Gullotta, Sara Polidoro, Francesca Stefanelli, Claudia Zonghetti.

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