Da qui non schiodiamo. Gli intellettuali che restano e resistono in Russia

Tatjana Fel’gengauer, Oleg Orlov, Ljubov’ Summ, Ivan Astašin, Katrin Nenaševa e Dmitrij Ivanov. Perché non vogliono lasciare la Russia e cosa sperano di cambiare (Prima parte)

10 giugno 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:06


Il presente articolo è stato pubblicato originariamente in russo su The Insider, l’originale può essere consultato a questo link. Ringraziamo la redazione per l’autorizzazione a tradurlo in italiano. Traduzione di Luisa Doplicher, Sara Polidoro e Claudia Zonghetti.


Per timore di repressioni di massa, negli ultimi tre mesi decine di migliaia di persone hanno lasciato la Russia, condannando l’aggressione militare contro l’Ucraina. Eppure chi non teme di esprimere la propria opposizione resta e partecipa alle manifestazioni contro la guerra. Molti giornalisti, attivisti e militanti per i diritti umani vogliono continuare a lavorare in Russia nonostante le leggi repressive e la minaccia di processi penali. The Insider ha chiesto a Tatjana Fel’gengauer, all’ex presidente del consiglio di Memorial Oleg Orlov, alla traduttrice Ljubov’ Summ, all’attivista per i diritti dei detenuti Ivan Astašin, all’attrice Katrin Nenaševa e allo studente-attivista Dmitrij Ivanov perché non vogliono lasciare la Russia e cosa sperano di cambiare restando qui. Pubblichiamo qui la prima parte dell’articolo, coi racconti di Fel’gengauer, Orlov e Summ. La seconda parte dell’articolo si trova a questo link.


Tat’jana Fel’gengauer, giornalista, ex speaker della radio Echo Moskvy (L’Eco di Mosca). Foto di Anton Nosik.

Tat’jana Fel’gengauer, giornalista, ex speaker della radio Echo Moskvy (L’Eco di Mosca)

Giunta per la prima volta appena sedicenne a L’Eco di Mosca, negli ultimi 18 anni ha lavorato per l’emittente. In questi anni ha anche scritto articoli per Deutsche Welle, ha condotto il programma “In che senso?” sul canale televisivo Dožd’ (TvRain) e conduce un blog sul canale YouTube della testata MBKH Media. Ha un canale Telegram e su YouTube. Nel 2018 la rivista Time aveva eletto Tat’jana Fel’gengauer come “Persona dell’anno” tra i “Paladini della verità”, i giornalisti che subiscono attacchi per la loro attività professionale. L’anno prima era stata vittima di un attacco nella redazione della radio L’Eco di Mosca. Ecco cosa racconta.



Proprio in quei giorni, mentre i propagandisti mi chiedevano dov’ero negli ultimi otto anni, Facebook mi ricordava che c’era stata una grandissima manifestazione contro la guerra, con bandiere russe e ucraine. La seguivo come corrispondente, raccontavo che le persone a Mosca – moltissime persone – manifestavano contro la politica di Vladimir Putin. Quindi so bene che risposta dare alla domanda “dov’ero negli ultimi otto anni”. Sui social c’è, ovviamente, un manipolo di idioti che mi scrivono in continuazione, minacciano, taggano il Comitato investigativo della Federazione russa sbraitando “Andate a controllare cosa sta facendo!”, ma non mi è mai successo nulla di concreto. E meno male, perché non è sicuramente il massimo vedersi scrivere qualcosa sul portone di casa. Purtroppo la situazione è questa: il capo di stato e il governo del paese stanno provocando un conflitto sociale. Stanno alimentando queste loro guardie rosse alla cinese per attaccare chi non condivide la “linea del partito”. C’è tanta tristezza e tanta paura.


Assistere alla caduta verticale del proprio Paese che finisce nelle mani di un governo fascista è una vera e propria tragedia. L’emigrazione è sempre nei pensieri, forse sin dal 2014, ma qualcuno ci pensava già dal 2011. Alcuni erano turbati dall’arrocco Putin-Medvedev, altri dall’annessione della Crimea. Il corso degli eventi stava portando diverse persone a pensare di partire. Io ci penso ogni tanto, e mi rendo conto che potrebbe toccare anche a me. Eppure per ora no, non ce l’ho in programma, non sto cercando un lavoro, guardando i voli, cercando un appartamento. Ora riusciamo a fare programmi per un giorno al massimo. Chi è molto sicuro di sé аrriva a due giorni. Per questo motivo non riesco a dire cosa ci riserverà il futuro.


Finché ho la possibilità di lavorare, lavoro. Il mio canale YouTube è per me importantissimo. Creo dei video, facciamo dei live su YouTube, intervisto persone. Si tratta ora dell’unico modo che ho a disposizione per continuare a parlare con il mio pubblico, e ci tengo molto. Se non si riuscirà a lavorare in nessun modo su YouTube, comunque Telegram funziona, e qualcuno riuscirà a comparire su Twitter, usando il VPN. Al momento non abbiamo una risposta a questa domanda [se si può continuare a fare informazione sulla Russia dall’estero], perché Meduza, che sta pur crescendo molto con la sua redazione principale a Riga, aveva comunque molti dei suoi giornalisti qui a Mosca. E ora non ci sono più. Non sappiamo che aspetto possa avere un mezzo di informazione asportato dalla Russia nel vero senso della parola, perché in un modo o nell’altro qui c’era una certa quantità di reporter, giornalisti, intervistatori, giornalisti d’inchiesta. Questo esperimento proprio non è stato fatto. Forse è difficile, perché ci sono degli aspetti che un giornalista deve osservare da solo, ad esempio andando in giro tutto il giorno in città e vedere con i propri occhi le persone con il simbolo Z, o entrare in dieci negozi uno dopo l’altro e vedere con i propri occhi cosa succede con lo zucchero, e non fare affidamento sulla foto di Belgorod [primo attacco ucraino in territorio russo, N.d.T.] che hanno stampato e appeso in ogni dove.


Ho l’impressione che sia abbastanza difficile scrivere di Russia non essendo in Russia. Per un analista forse è più semplice. Mi piace il fatto che la Russia sia un paese dalla grande storia, dalla grande cultura, fatto di persone meravigliose. E che fino a poco tempo fa aveva un futuro. Credo indubbiamente che la Russia sia stata privata del suo futuro. Siamo ripiombati a cinquant’anni fa, forse. Per riprenderci il futuro, dobbiamo innanzitutto fermare questa orribile guerra. Credo che dovremmo scusarci con tutti, pentirci e supplicare gli ucraini di perdonarci. Dobbiamo “far fuori” questa propaganda e smetterla con questo lavaggio del cervello. Ritengo che per far rinascere il nostro paese ci vorranno decenni, perché per decenni ne abbiamo lavati tanti di cervelli. Innanzitutto va fatto questo. E poi vedremo.


Oleg Orlov davanti alla sede di Memorial
Oleg Orlov davanti alla sede di Memorial. Foto di Anna Artem’eva

Oleg Orlov, attivista, membro del consiglio del centro Memorial

Attivista da oltre 30 anni, è coautore di molti rapporti dell’associazione Memorial. Ha visitato zone di conflitti armati nello spazio post-sovietico in qualità di osservatore. Nel 1995, dopo la liberazione degli abitanti di Budennovsk sequestrati durante un attacco terroristico nell’ospedale della città, insieme ad alcuni deputati e attivisti si era offerto di fare da “scudo umano” durante il ritiro dei combattenti di Šamil Basaev. Negli ultimi due mesi Oleg Orlov è stato portato via dalla polizia diverse volte durante i suoi “picchetti solitari” per manifestare contro l’aggressione russa in Ucraina. Orlov è inoltre cofondatore del Consiglio degli attivisti russi che il 25 marzo 2022 ha pubblicato un Manifesto umanitario contro la guerra.


Il 24 febbraio ci trovavamo all’estero. Avevamo organizzato un seminario per discutere del futuro di Memorial. Quando siamo venuti a sapere che era iniziata l’invasione, l’orrore è stato grande. Abbiamo capito, a differenza della maggior parte dei nostri connazionali, che si trattava di un momento cruciale. Me ne ricordo diversi di questi momenti. È un momento pesantissimo, terribile della nostra vita. Tutti i soci di Memorial che avevano partecipato al seminario sono tornati in Russia. Nessuno ha mai pensato di non rientrare. Avevamo infatti discusso del nostro futuro, e dovevamo tornare o perlomeno fare di tutto affinché Memorial potesse proseguire il suo operato in queste nuove circostanze, continuando a fare quello che faceva. Durante la guerra alcuni dei miei colleghi sono partiti, qualcuno è rimasto. Anch’io resto. C’erano già state diverse volte in cui si era detto che saremmo dovuti partire e che qui le cose sarebbero peggiorate. Ho sempre pensato che non sarei voluto andare da nessuna parte. Questo è il mio paese. Per il mio paese e con Memorial ho iniziato a lavorare 30 anni fa, e nel mio paese voglio vivere e morire. Lavoro per il mio paese. Ma non posso garantire che rimarrò qui ad ogni costo.


Non mi sta accadendo nulla di particolarmente minaccioso. Certo, la polizia mi ferma, mi porta al comando. Peraltro non solo me, ma anche i miei colleghi, e infatti nei blindati o in commissariato ho conosciuto delle persone molto belle. Non ci sono state, com’era accaduto altrove in alcuni comandi di polizia, minacce o violenza fisica. Tutto si è svolto nel rispetto della legge, se questa si può definire legge. Ma tutto ciò che sta accadendo sicuramente non è nel rispetto dei diritti.



Il governo ha approvato tantissime leggi draconiane che hanno nella pratica annichilito la libertà di parola, anche tramite la “diffusione intenzionale di informazioni false sulle azioni delle forze armate della Federazione Russia” e la “diffamazione”, per cui si intende tutto e niente. Le sole parole “Il fascismo non passerà” sono considerate diffamazione delle forze armate. Ovviamente chiunque dica qualcosa sulla guerra è passibile di azioni repressive.


È evidente che la maggioranza assoluta delle persone non vuole protestare. Molti nel profondo non approvano ciò che sta accadendo, ma ritengono che sia meglio tacere. Hanno paura, vogliono evitare problemi, e in generale una gran parte della società è indifferente. È evidente che la società russa è una società anormale, profondamente malata, che sta male da molto tempo. Proprio questa malattia dell’indifferenza ne è forse l’aspetto più spaventoso e terribile. Le persone non capiscono proprio che la guerra avrà delle ricadute sulle loro vite.


Io sono sicuro che avremmo potuto avere un margine di manovra sulle decisioni del governo. Se fosse emerso, come all’epoca di Piazza Bolotnaja [le proteste di Piazza Bolotnaja del 2011-12 – The Insider], il movimento dei nastri bianchi, se fossero scese in strada centinaia di migliaia di persone, il governo, forse, avrebbe agito diversamente. Forse avrebbe modificato subito il corso di questa guerra. Sicuramente non l’avrebbe fermata su due piedi, non si sarebbe pentito, non avrebbe ritirato le truppe dalla Repubblica Popolare di Doneck e dalla Repubblica Popolare di Lugansk, ma perlomeno l’orrore a cui abbiamo assistito il mese scorso – mi riferisco alle zone di guerra – non avrebbe assunto queste dimensioni. Ci sarebbe stato magari un atteggiamento più cooperativo nei negoziati, si sarebbe cercato il compromesso, sempre che non lo si cercasse già. A che costo, a che costo tremendo questo nostro potere, santo cielo, si deciderà ad arrivare a un compromesso?! Il costo della vita dei russi e il costo di ancora più vite di ucraini, soprattutto civili, il costo di spaventose perdite economiche.


Certo è che ai russi non viene fornito un punto di vista alternativo, e questo avviene proprio per evitare proteste. Questo in un certo senso mostra la debolezza del potere: il governo teme l’emergere di sentimenti di protesta. E questo ancora una volta dimostra che l’occasione per far sì che questa guerra non esplodesse, come sta esplodendo ora, la società russa ce l’ha avuta. Ma la società russa non l’ha saputa cogliere, questa occasione.


Svegliare le persone si può, se c’è un’informazione alternativa e se le persone iniziano a capire cosa sta succedendo. Mi sembra che prima o poi questo inevitabilmente accadrà, o forse sta già accadendo. Anche sui canali della propaganda – non li amo, di solito non li guardavo, ma ora li guardo perché è necessario capire cosa dicono – persino lì, sentiamo che i soldati stanno incontrando una forte resistenza e che faticano a occupare le città. Perciò, inevitabilmente, le persone inizieranno a rendersi conto che la “piccola guerra della vittoria” sta assumendo dei connotati raccapriccianti.


Mi hanno già chiesto: “Dove sei stato negli ultimi otto anni e perché non hai parlato delle bombe su Doneck?”. Otto anni fa abbiamo fatto tanti viaggi su entrambi i fronti. Siamo stati nelle cosiddette Repubblica Popolare di Doneck e Repubblica Popolare di Lugansk e anche sul fronte ucraino. Abbiamo visto tutto e abbiamo descritto tutto questo orrore. Avevamo parlato di questo pseudo-referendum [il referendum “sull’autodeterminazione della Repubblica Popolare di Doneck” dell’11 maggio 2015, – The Insider] nel rapporto “Il referendum che non era un referendum”, perché possiamo dire con assoluta certezza e documentare che questo referendum è stato una farsa: non c’è stato nessun referendum, ed è stato impossibile calcolare quante persone hanno votato.


Abbiamo poi visto quando sono iniziati i combattimenti. Ero a Doneck quando partivano le granate dalla parte ucraina, quando i quartieri residenziali venivano bombardati. Lo avevamo detto apertamente anche ai nostri colleghi ucraini e avevamo scritto nel rapporto, dichiarandolo a livello internazionale, che si trattava di un crimine, che non era ammissibile l’utilizzo dei missili Grad sui quartieri residenziali, su qualsiasi centro abitato. Ce lo dicevano i nostri colleghi ucraini, e noi stessi abbiamo visto che in quei quartieri residenziali i rappresentanti della Repubblica Popolare di Doneck e della Repubblica Popolare di Lugansk dispiegavano le proprie forze. Sì, è vero che ciò non giustifica un attacco che uccide dei bambini e le granate che cadono sugli ospedali. Ma è un’altra storia vedere che i nostri propagandisti parlavano solo di questo aspetto e non dicevano che i centri abitati di Doneck e Lugansk venivano distrutti anche dall’altra parte, dalle bombe dei separatisti e dalle granate del nostro esercito che all’epoca andava e tornava. Avevamo visto le conseguenze di tali attacchi, eravamo lì, dove allora morivano le persone, e lo vediamo adesso sugli schermi televisivi.


Ad un certo punto hanno smesso di volerci vedere, a noi soci di Memorial. Nelle Repubbliche ci dicevano: “I nostri servizi segreti vi hanno dichiarato persone non grate”. Purtroppo allo stesso tempo uno dei rapporti che avevamo pubblicato con i nostri partner ucraini non era stato visto di buon occhio dal Ministero degli Interni locale. Anche loro volevano che si parlasse solo di una parte. Ciascuna delle parti lo voleva, e pertanto da quel momento non ci hanno fatto più entrare.



Ad un mese dall’inizio dell’aggressione in Ucraina, alcuni di noi attivisti russi, non a nome delle nostre organizzazioni (che in parte erano già state eliminate), ma a titolo personale, abbiamo pubblicato un testo dal titolo “Manifesto umanitario”. In questo documento abbiamo chiamato tutto col proprio nome: guerra – guerra, aggressione – aggressione, morte di civili e conseguenze terribili per la Russia. In questo manifesto abbiamo anche annunciato la creazione di un Consiglio degli attivisti russi per coordinare le nostre azioni in queste circostanze così difficili.


Ora c’è la leva di primavera, e moltissimi giovani potrebbero essere arruolati. Se la situazione attuale continuerà a protrarsi, non si potrà assolutamente escludere che invieranno delle reclute. Per questo, per difendersi dalla chiamata alle armi, c’è il servizio civile alternativo, una possibilità che si può sfruttare facendo leva sui propri diritti. Dobbiamo dare alle persone questa possibilità. E poi ci sono i profughi. Dobbiamo aiutarli, li stiamo già aiutando e siamo pronti a continuare a dare man forte. E ancora, c’è la questione di chi combatte sul campo: i loro cari hanno diritto di sapere che fine fanno queste persone. Una parte di loro è scomparsa nel nulla. Hanno diritto di ricevere i corpi, se arriva la notizia che sono morti. Hanno diritto di richiedere uno scambio di prigionieri, se sono stati catturati. E poi, importantissimo, bisogna aiutare le vittime di repressioni politiche. Stanno aumentando, ed è inevitabile che arriveranno nuove leggi repressive. E ancora: dobbiamo difendere i mezzi di informazione, i giornalisti. È chiaro che la possibilità di riuscirci in queste condizioni di assenza di libertà di parola è minima, tuttavia qualcosa si può e si deve fare. Sono del parere che in queste condizioni di paura generalizzata, di paralisi della società civile, dobbiamo dire, dobbiamo affermare pubblicamente che noi non stiamo zitti e buoni e che vogliamo continuare a lavorare.


Ljubov’ Summ

Ljubov’ Summ, traduttrice e attivista iscritta al PEN Centre russo

I suoi nonni erano il poeta Pavel Kogan e la scrittrice Elena Rževskaja. Traduce dall’inglese, dal tedesco e dal latino. Sono uscite sue traduzioni di Plutarco, Francesco d’Assisi, Jonathan Franzen, Salman Rushdie e molti altri autori. A marzo del 2022 Summ è stata arrestata sulla piazza Puškin a Mosca per aver mostrato un cartello che riportava una poesia di Nekrasov, «Ascoltando gli orrori della guerra».


Dalla fine di dicembre e fino al 23 febbraio ho fatto picchetti contro la guerra. All’epoca non era «discredito delle forze armate russe» né dal punto di vista formale, dato che quella legge è stata promulgata in seguito, e neanche nella sostanza, perché all’epoca non avevano ancora fatto nulla. Manifestavo contro l’ipotesi che in una qualsiasi forma si passasse a una soluzione militare di problemi che in un modo o nell’altro erano argomento di trattative già da otto anni. Se gli accordi di Minsk non funzionavano, bisognava stilarne altri. In fondo quelle trattative si erano svolte, nessuno le aveva rifiutate in quanto tali. Eppure ogni giorno moriva qualcuno, inclusi i soldati ucraini. Morivano civili di entrambi gli schieramenti. Anche questa è guerra, ma la nostra debolezza umana ci fa dire che non lo è. I miei amici che vivono in Ucraina dicevano: «Ci sentiamo in guerra. Viviamo nella paura che la Russia vada oltre». Ma in tutti questi anni in qualche modo noi ci siamo inventati un compromesso.


Otto anni fa, all’inizio di marzo del 2014, ho creduto che sarebbe successo di tutto e ho chiesto a mio figlio, all’epoca matricola all’università, di lasciare il paese. Pensavo che ci sarebbe stata la mobilitazione generale e che l’avrebbero reclutato. «Sei matta?» mi ha risposto, «non ci sarà niente del genere, è impossibile». «Cancelleranno tutti i voli» gli ho detto. «Il mondo ci isolerà, non si potrà andare da nessuna parte». Per otto anni, poi, mi avrebbe ricordato quanto fossi stata isterica.


Per combinazione, alla fine di febbraio del 2014 mi è capitato per l’unica volta di trovarmi in un cellulare della polizia. È successo proprio per caso. Mi chiama Ljudmila Ulickaja e mi fa: «Ho saputo che ti hanno fermata. Vedrai che ti faranno un processo, meglio che ti iscriviamo subito al PEN! Anche i traduttori sono membri del PEN. Se ti iscriviamo non potranno farti nulla». Con una mano ho fatto domanda, con l’altra guardavo i documenti del processo, del tutto inconsistente. Poi è successo quello che è successo, e per circa sei mesi il PEN di allora, sotto la direzione di Ulickaja, è riuscito a far circolare molti ottimi comunicati. C’è stato quello in difesa di [Stanislav] Aseev, che allora si trovava in uno scantinato della DNR; quello per Oleg Sencov e, ovviamente, contro qualsiasi forma di violenza, contro la guerra. È semplicemente lo statuto del PEN, non occorre neanche chiedere l’opinione personale dei membri. Quando si firma lo statuto, si vede che il Pen prende le difese di chiunque scriva o parli e che per questo viene perseguitato, che salvaguarda con ogni mezzo la pace e i legami culturali, non agevola mai la propaganda dell’odio ma, anzi, a essa si oppone strenuamente.


Il PEN ha fatto un buon lavoro anche in simili circostanze. Abbiamo in effetti continuato a far circolare comunicati importanti. Che magari non avranno cambiato nulla, ma che – importantissimo – hanno «chiamato a raccolta i vivi», come nell’epigrafe del giornale Kolokol di [Aleksandr] Gercen. Diamo testimonianza del fatto che siamo vivi. Perciò, dato che lo siamo noi, viva è anche la letteratura russa, la sua componente umanistica, la consapevolezza che apparteniamo alla società internazionale, e quindi all’umanità.


Benché forse i suoi comunicati non servissero a molto, il PEN attirava l’attenzione. E anche questo è importante. Non lasciavamo passare l’oppressione a bocca chiusa, facevamo sentire alla gente che eravamo dalla loro parte. I membri del PEN sono andati ad alcuni processi. Nel caso della direttrice della biblioteca ucraina, siamo riusciti a fare in modo che se la cavasse con la condizionale.


Quando sono andata in piazza Puškin con la poesia di Nekrasov, l’ho fatto per difendere la letteratura russa. Ho eliminato l’account su Facebook, ormai sono del tutto a-social. Se non mi avessero arrestata, forse l’evento sarebbe rimasto del tutto invisibile. Non sono sui social media, non ho informato nessuno. Che era Nekrasov l’ho detto dal cellulare della polizia. Insomma, sarei andata sulla piazza Puškin, avrei letto la poesia e sarei tornata a casa. Il mio arresto, invece, l’ha trasformato in un evento pubblico.


Nel verbale che mi riguarda c’è un timbro: «Utilizzo di mezzi propagandistici visivi per attirare l’attenzione di un numero illimitato di persone oltre che dei blogger e dei mezzi di comunicazione». Benissimo, ma io non ho affatto attirato l’attenzione di un numero illimitato di persone, in primo luogo perché sulla piazza non c’erano, e in secondo perché non avevo scritto da nessuna parte che sarei andata a manifestare. Stavo sulla piazza Puškin, circondata da transenne metalliche; c’erano tre poliziotti che sono intervenuti quando ero appena arrivata e mi stavo ancora guardando intorno. Mi hanno fermata e hanno chiesto: «Che cos’è quel cartello che spunta dal suo zaino?». Ho detto: «Vado alla statua di Puškin a leggere una poesia». Ci sono arrivata e mi hanno chiesto: «Allora, che cos’ha lì?». Ho iniziato a tirar fuori il cartello, e loro: «Non lo apra». Ho risposto: «Come posso mostrarvelo sennò?». Un poliziotto mi ha ordinato di consegnare a lui il cartello ma io l’ho srotolato comunque. «A questo punto, mi fa, la fermiamo in base all’articolo 23.3».


Il poliziotto ha messo a verbale l’intera poesia. Poi è andato a cercarla su Internet. Naturalmente appaiono subito tutti i siti e i manuali scolastici. Poi un paragrafo secondo cui quella poesia, scritta all’epoca della guerra di Crimea, fu influenzata dai Racconti di Sebastopoli di Tolstoj. Leggendo il paragrafo sono stata contentissima di vedere che il poliziotto ritornava a radici che avevamo in comune, alla letteratura scolastica. Poi, però, non ho creduto alle mie orecchie: «Questa opera è intesa per rovesciare il potere con la violenza».


Ma non c’è neanche una parola sul potere, né sui rovesciamenti o sulla violenza! La poesia non fa che «Ascolta[re] gli orrori della guerra». La so a memoria perché l’ho studiata a scuola. Negli ultimi decenni è stata tolta dal programma scolastico, ma è nella lista delle opere consigliate. Nella proposta di svolgimento degli esami di maturità del 2020 c’era un confronto tra questa poesia di Nekrasov e una di Dement’ev, poeta più moderno. Veniva fatta un’analisi esemplare degli orrori della guerra, mostrati tramite il dolore delle madri, ma non si sosteneva affatto che Nekrasov e Dement’ev proponessero di rovesciare il potere esortando a fare alcunché.


Oggi mi chiedo se non emigrare. Per due motivi. Il primo è che otto anni fa volevo andarmene, e mi sono sentita dire una cosa giustissima: «Che senso ha? Pensi che soffrirai meno, se te ne vai? Che starai meno male? Semplicemente starai laggiù e ti sentirai a disagio sapendoti al sicuro. E alla fine smetterai di capire con il sangue che cosa succede qui».


Un tempo cercavo di fare qualche viaggio una volta all’anno, per una settimana almeno, perché è importante. Quando uno si trova sempre dentro questa situazione, va a finire che la mattina cerca la testa nel comodino. D’altro canto, se uno sta sempre all’estero, smette di capire come vive la gente qui.


Adesso mi è venuta in mente questa cosa: se mi trovassi all’estero sarei un free agent, una persona che può esprimersi liberamente. Dopo che hanno promulgato quelle leggi, ogni volta che voglio scrivere qualcosa rifletto: sono pronta a pagarla in questo o quel modo, quanto ci tengo, che cosa devo dire e così via. Cioè, la libertà di parola è sparita del tutto. E il motivo non sono soltanto le leggi che promulgano, ma anche il fatto che, di conseguenza, io sono diventata un prodotto di quelle leggi.


In questo senso, trovarmi adesso altrove, in un posto dove potessi scendere in piazza senza problemi, o aiutare la gente, o pensare liberamente, senza provare un terrore costante… sì, mi piacerebbe. Poi ho pensato ai miei quattro cani e ho capito che non me ne andrò mai fisicamente.


Il 24 febbraio, al massimo il 25, per la prima volta mi hanno cercato i poliziotti di quartiere. Prima di allora nessuno aveva mai tirato fuori il mio processo di otto anni fa (del tutto infondato), benché avessi fatto svariati picchetti. Non me ne avevano mai chiesto conto ufficialmente. Quel giorno invece mi ha telefonato il poliziotto di quartiere, tra l’altro di una zona che avevo lasciato otto anni prima, quando avevo venduto l’appartamento e mandato mio figlio all’estero. «Vengo da lei, mi fa, a casa sua vive altra gente». Ho risposto che non ero più domiciliata lì da otto anni. La mattina dopo mi ha chiamato il poliziotto di un altro quartiere, quello dove risiedo adesso. All’inizio mi ha detto cose del tutto ridicole, sosteneva di dovermi informare su certe truffe bancarie. Mi ha chiesto di presentarmi di persona. Poi mi hanno cercato tramite una mia amica. Di sera ha chiamato di nuovo il poliziotto, ridacchiando, e ha detto che mi doveva mettere in guardia sulle proteste. E ha continuato a telefonare abbastanza spesso. Mi ha chiamato anche il giorno in cui ero andata a manifestare con la poesia di Nekrasov, dicendo: «Buongiorno, è un po’ che non la chiamo». Ho risposto: «Sì, ma io sono su un cellulare della polizia». E quello: «Come?! Mi aveva detto che non andava alle manifestazioni!». Ho risposto che non andavo a iniziative di massa, che ero troppo in là con gli anni per partecipare a cose del genere. Volevo soltanto leggere una poesia. «Ma come ha potuto?» ha detto, e ha riagganciato. Adesso probabilmente ricomincerà a darmi consigli.


Tutto ciò che facciamo ora ha luogo in presenza di un futuro. Quanto al fatto che un futuro esista… Io, come essere umano, ritengo che il futuro sia legato da sempre all’istruzione; perciò è evidente che i giovani non hanno futuro, perché vedo che cosa sta succedendo all’istruzione. I nostri giovani fanno picchetti e poi finiscono in carcere. E anche se non ce li spediscono, poi fanno in modo che non possano laurearsi… E che cosa significa tutto ciò? Anche questo è futuro rubato.


Ora è chiaro che lo stato è deciso a rinforzarsi qui e ora, e ad adattare il passato a questo «qui e ora». Per rinforzare questo presente, com’è ovvio, si falcia via il futuro. Non si investono soldi nel futuro, ma in questa sorta di presente immobile. Il futuro è sottoposto a infinite revisioni, la memoria è fatta a pezzi. In questo senso, certo, senza memoria, senza passato, senza una buona istruzione, senza investimenti nel futuro, possiamo tecnicamente dire che il futuro non esiste.

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