Unicorni all’attacco: guerra e diritti Lgbtq+ in Ucraina

Qualcosa è davvero cambiato nella società ucraina negli ultimi otto anni, da quel febbraio 2014 quando il deputato Parasjuk esortò a inviare a combattere forzatamente nel Donbas i partecipanti al Gay Pride di Kyiv.

Immagine: Marcia dell’Uguaglianza a Kyiv, 23 giugno 2019
(Foto di Oskar Iansons)


(di Simone Attilio Bellezza, ricercatore dell’Università di Napoli Federico II e membro del consiglio direttivo di Memorial Italia)

6 giugno 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:04


Il mese dell’orgoglio LGBTQ+ è cominciato in Ucraina con delle buone notizie: l’usuale sondaggio condotto dall’Istituto internazionale di sociologia di Kyiv e dall’associazione Naš Svit (Il nostro mondo) ha dato dei risultati inaspettati. Secondo questa ricerca il 57,6% degli intervistati ha un atteggiamento positivo o neutrale nei confronti dei soggetti LGBTQ+, rispetto al solo 34% del 2016, quando questo sondaggio fu effettuato per la prima volta. Ma i risultati alle altre domande sono da considerarsi ancora più clamorosi: ben il 63,7% degli ucraini ritiene che le persone LGBTQ+ debbano avere gli stessi diritti che hanno tutti gli altri. Quest’anno è stata anche aggiunta una nuova domanda riguardante l’atteggiamento degli ucraini a proposito della partecipazione delle persone LGBTQ+ alle operazioni militari in difesa dall’attacco russo: un corposo 81% degli ucraini ha dichiarato di giudicare la decisione in maniera positiva o neutrale e ovviamente queste percentuali crescono significativamente se si prendono in esame le fasce d’età più giovani.


Qualcosa deve essere davvero cambiato nella società ucraina negli ultimi otto anni: ancora nel giugno 2015 il deputato ucraino Volodymyr Parasjuk, divenuto famoso per aver minacciato di morte Viktor Janukovyč dal palco dell’Euromajdan il 21 febbraio 2014, aveva dichiarato che i partecipanti alla manifestazione del Gay Pride di Kyiv di quell’anno dovevano essere mandati a combattere forzatamente nel Donbas. Questo perché durante la Rivoluzione della Dignità (come viene chiamato l’Euromajdan in Ucraina), la comunità queer ucraina aveva scelto l’opzione della non-visibilità: anche se era chiaro che alla protesta avevano partecipato anche manifestanti LGBTQ+, differentemente da quanto era successo con la componente ebraica, non si era costituita una “centuria gay” e in sostanza si era deciso che non fosse quello il momento di sollevare la questione dei diritti LGBTQ+, quando la stessa democrazia era a rischio. Questo atteggiamento aveva di fatto avallato le posizioni omofobe dell’estrema destra: i primi problemi erano appunto sorti nel 2015 con l’organizzazione della “Marcia dell’Uguaglianza”, denominazione più appropriata di quello che in italiano chiamiamo “Gay Pride”. L’allora neosindaco di Kyiv, Vitalij Klyčko, aveva cercato di fermare l’iniziativa e fu la volontà superiore del presidente Petro Porošenko ad imporre la manifestazione nell’Ucraina del dopo-rivoluzione. La marcia si tenne così fra imponenti misure di sicurezza e segretezza: solo soggetti controllati ricevettero informazioni su dove si sarebbe svolta la manifestazione, che di fatto consistette nello stare in piedi fermi sulle rive del fiume Dnipro, nell’elegante quartiere di Obolon’, circondati da uno spesso cordone di polizia, che fu comunque attaccato degli esponenti dell’estrema destra nazionalista con feriti da entrambe le parti.


Solo a partire dal 2016 la Marcia dell’Uguaglianza si spostò nel centro della città e, nel corso degli anni successivi, crebbe per numero di partecipanti e itinerario percorso fra le vie del centro. Nonostante le imponenti misure di sicurezza, la Marcia si è svolta in maniera sempre più pacifica, contribuendo in maniera significativa ad accrescere la visibilità dei soggetti LGBTQ+ nella società ucraina.


Questo cambiamento di strategia è in parte dovuto anche al conflitto nel Donbas: se infatti è vero che alcuni battaglioni di volontari, come il famigerato “Azov”, si ispiravano a un’ideologica di estrema destra, altri, come il “Donbas” guidato dall’ex militare Semen Semenčenko, avevano invece abbracciato dei principi politici più liberali e democratici. In queste formazioni avevano trovato modo di arruolarsi anche persone LGBTQ+, che vennero alla ribalta nel 2018, grazie alla mostra del fotografo ucraino Anton Šebetko “Noi c’eravamo”, dedicata alla vita dei combattenti LGBTQ+ nel Donbas. Protagonista assoluto della mostra divenne Viktor Pylypenko, un granatiere e infermiere del battaglione Donbas, che aveva avuto il coraggio di fare coming out per colpire l’opinione pubblica. L’intento della mostra era appunto quello di far vedere che anche le persone con una sessualità o un’identità di genere non tradizionali contribuivano alla lotta armata in sostegno del governo democratico ucraino e contro l’invasione russa: essi avevano perciò il diritto di essere considerati patrioti e pienamente cittadini della nazione ucraina.


Pylypenko decise poi di non sprecare il capitale di visibilità creato dall’evento e in quello stesso anno fondò l’Associazione dei Militari LGBT per raccogliere uomini e donne che come lui avevano combattuto o ancora combattevano nelle forze armate ucraine. Lo stemma ufficiale dell’Associazione prende un simbolo tipico della cultura omosessuale, un unicorno, ma lo affianca a una fiamma, al tridente ucraino, e lo circonda di spade, rovi e filo spinato così da rivelare il carattere combattivo dei membri. Se certo non tutta la comunità queer si riconosce nella scelta della lotta armata, l’Associazione dei Militari LGBT ha contribuito a cambiare l’immagine stereotipata che le persone LGBTQ+ avevano agli occhi degli ucraini, iscrivendo anche loro a pieno titolo nella comunità nazionale.


Colpisce che in occidente questa iniziativa abbia avuto pochissima risonanza. In compenso i mezzi d’informazione russi non hanno tardato a strumentalizzare la notizia, parlando di un vero e proprio “battaglione gay” che le propaganda russa ha immaginato in azione nel Donbas e alludendo alle terribili punizioni corporali che questo avrebbe dispensato ai nemici. Ovviamente le persone LGBTQ+ arruolate nelle forze armate ucraine non sono riunite in nessuna formazione particolare, ma operano al fianco dei propri commilitoni eterosessuali: solo alcuni membri dell’Associazione hanno dichiarato pubblicamente la propria sessualità, consci del valore politico di questa scelta. Colpisce che il governo ucraino, che pure nulla ha fatto per fermare l’iniziativa, l’abbia reclamizzata poco, soprattutto a livello internazionale, per ottenere aiuti dai paesi occidentali che sicuramente giudicano come elemento di democratizzazione le garanzie fornite alla comunità LGBTQ+.


L’ Associazione dei Militari LGBT, per voce del suo fondatore, affianca le altre maggiori associazioni ucraine, come Gay-Alliance e KyivPride, nella richiesta di uguali diritti, financo del matrimonio paritario. Queste richieste, così come quelle di risolvere le altre mancanze della democrazia ucraina, sono state ribadite anche nei giorni scorsi da Pylypenko, che si è riarruolato volontariamente all’indomani dell’attacco del 24 febbraio. Le parole del patriarca Kirill sulla guerra contro chi sostiene i diritti dei gay devono essere del resto suonate come un campanello d’allarme che ha ulteriormente ricompattato la retorica dell’Ucraina come nazione democratica e plurale, inserita pienamente nei valori occidentali. Ma molti sono anche stati coloro che, spaventati e spaventate da questo attacco ideologico, sono fuggiti dalle zone sotto attacco: anche per questo il mondo dell’associazionismo LGBTQ+ si è attivato per organizzare case accoglienza dedicate alle persone queer.


Questo affresco abbastanza roseo è stato offuscato dalla notizia, giunta nelle prime settimane di guerra, che alcune persone che avevano compiuto il percorso di transizione da maschio a femmina erano state fermate alla frontiera ucraina, dove non avevano potuto lasciare il paese e, in alcuni casi, erano state maltrattate e abusate. Se è vero che la legge di guerra impedisce l’espatrio agli ucraini maschi fra i 18 e i 60 anni, essa riconosce però a tutti gli effetti il cambio di sesso e questi casi sono stati delle vere e proprie violazioni dei diritti umani. L’allarme dei primi giorni sembra però essere rientrato e la polizia di frontiera è stata ricondotta al rispetto delle norme.


Nel mentre la comunità queer ucraina ha già dovuto soffrire i primi lutti, anche se ancora sottovoce e senza attenzione dei media, a sottolineare quanto sia ancora difficile per una persona LGBTQ+ dichiarare apertamente la propria situazione. Proprio per questo Viktor Pylypenko, in uno dei suoi ultimi status su Facebook (risalente al 18 maggio scorso), dichiarava: “I ragazzi gay combattono come tutti gli altri e come loro muoiono, ma continuano a essere infangati alle proprie spalle. Gli speculatori dell’odio ribadiscono il divieto dei matrimoni gay e il sindaco di Ivano-Frankivs’k ha ripetutamente affermato che ‘un gay non può essere un patriota’, mentre una famosa pop star afferma che essere gay è un peccato. Dirò una cosa: dopo la guerra, noi – o coloro che verranno dopo di noi – otterremo sicuramente il diritto all’uguaglianza e al matrimonio, ed erigeremo un monumento a tutti i militari LGBT+ morti, affiancato da un viale alberato. Affinché questi alberi crescano a lungo, come la memoria scolpita nel granito”.

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