Chi di propaganda ferisce… La guerra in Ucraina vista dalla Repubblica ceca

Il Governo di Praga ha deciso di rendere operativo un Centro contro il terrorismo e le minacce ibride, con un’ampia gamma di compiti che vanno da tenere sotto controllo il terrorismo informatico a sorvegliare la diffusione delle campagne di disinformazione.

(di Alessandro Catalano, professore di lingua e letteratura ceca presso l’Università di Padova e candidato socio di Memorial Italia)

16 maggio 2022 
Aggiornato 04 ottobre 2022 alle 09:16

Il Governo di Praga ha deciso di rendere operativo un Centro contro il terrorismo e le minacce ibride, con un’ampia gamma di compiti che vanno da tenere sotto controllo il terrorismo informatico a sorvegliare la diffusione delle campagne di disinformazione.

In Italia la discussione sulla diffusione della propaganda russa è appena iniziata e si svolge in un contesto confuso, dominato da preoccupazioni economiche legate agli investimenti delle aziende italiane e alla nostra dipendenza dal gas russo, condite con richiami frequenti e spesso pretestuosi alla libertà di pensiero e di parola. Se la presenza di propagandisti russi nei media tradizionali ha ormai assunto proporzioni tali da suscitare l’interesse delle istituzioni di controllo, i commenti nei siti dei quotidiani e i social sono già da molto tempo invasi da interventi che sostengono quello che potremmo definire “punto di vista russo”. Basta del resto fare una veloce ricerca su Twitter per rendersi conto, giusto per fare un esempio tra i molti possibili, della prevalenza degli hashtag #russofobia e #cancelculture rispetto a #propagandarussa e #fontirusse.

Per valutare l’attuale dibattito italiano possiamo provare a mettere a confronto la nostra discussione con quella in atto in altri paesi europei. Qualche tempo fa il governo della Repubblica ceca ha lanciato una nuova campagna “difendiamo la Repubblica ceca” (branmecesko.cz), con l’obiettivo di contrastare la diffusione della propaganda russa: sul sito vengono analizzate le sei più accreditate “menzogne” diffuse dal Cremlino e si invitano i cittadini a un uso consapevole dei social media. Nell’elenco delle associazioni impegnate nella lotta alla propaganda, oltre al “Centro contro il terrorismo e le minacce ibride”, struttura del Ministero degli interni, ne vengono elencate ben sedici non governative. Ma perché proprio la Repubblica ceca ha oggi la sensazione di essere al centro di una guerra mediatica?

La brutale invasione dell’Ucraina voluta da Putin ha reso evidente come esistano differenze notevoli nella riflessione che ogni contesto culturale porta avanti rispetto alle minacce della politica internazionale e sulle azioni da intraprendere per contrastarne i pericoli. L’informazione italiana non sembra però in grado di cogliere gli umori di ciò che accade nell’Europa centro-orientale, da dove arrivano informazioni spesso superficiali e quasi sempre parziali. Chi osserva con più attenzione la Repubblica ceca ha senz’altro notato la differenza di atmosfera a proposito del conflitto in Ucraina, avvertito con maggiore vicinanza e intensità. Probabilmente restano sempre valide le parole di Milan Kundera: “Ai confini orientali di quell’Occidente che è l’Europa centrale, siamo sempre stati più sensibili al pericolo della potenza russa”.

Trovare del resto tra i paesi più attivi nel sostegno all’Ucraina proprio la Repubblica ceca, fino a pochi mesi fa spesso considerata, soprattutto per via delle dichiarazioni di alcuni politici di primo piano, uno dei paesi, se non esplicitamente vicini politicamente alla Russia, quanto meno neutrali, sembra aver sorpreso più di un commentatore. In Italia sono in effetti molti gli osservatori che interpretano quanto sta accadendo sulla base delle cartine a colori che ci spiegano la geopolitica mondiale per grossolane semplificazioni. Il primo carico di armi in assoluto inviato in Ucraina, il viaggio dei tre premier a Kyïv, l’evidente emarginazione delle figure politiche più esposte in favore del Cremlino (tra cui l’ex presidente della repubblica Václav Klaus e l’attuale presidente Miloš Zeman), sembrano invece al momento segnare un coinvolgimento di Praga in prima linea. Se è chiara l’importanza del cambio di governo avvenuto dopo le elezioni politiche dell’ottobre del 2021, l’invasione della Crimea e le sue modalità avevano allarmato alcuni segmenti della società ceca già dal 2014. E l’invasione dell’Ucraina ha riattivato il ricordo dell’analoga repressione della Primavera di Praga nel 1968 e ha ricompattato la società ceca, scossa nell’ultimo decennio da grandi polarizzazioni sociali.

Tutto è stato accompagnato da una serie di interventi realizzati dal governo ceco nell’ambito dell’informazione ancora prima del blocco dei canali statali russi deciso dall’Unione Europea. Già il 25 febbraio i quotidiani cechi hanno infatti riportato la notizia della chiusura di otto siti web piuttosto noti, ritenuti tra le principali fonti di disinformazione legate alla propaganda russa. Tuttora inattivi risultano, tra gli altri, i discussi domini areonet.cz, ceskobezcenzury.cz (Repubblica ceca senza censura) e vari altri. Il caso più conosciuto è quello di protiproudu.cz (contro corrente), legato a Petr Hájek, l’ex portavoce di Václav Klaus, prontamente spostato su una nuova piattaforma e tutt’ora funzionante (protiproud.info). Le attività di Hájek, già in passato protagonista di campagne controverse, sono state oggetto di analisi investigative da parte dei giornalisti cechi che, tra le altre cose, hanno ricostruito l’origine dei 15 milioni di corone spesi in tempi recenti in iniziative di “controinformazione”, provenienti attraverso complessi meccanismi finanziari da società controllate da una procace ventisettenne bielorussa. Hájek è considerato uno dei maggiori diffusori della propaganda russa nella Repubblica ceca e, alla luce della ricostruzione di queste opache transazioni finanziarie, è lecito chiedersi se si tratti di forme di finanziamento diffuse anche in altre parti d’Europa.

Il tema della “guerra ibrida”, degli hacker, dei troll e dei bot russi e di una concreta minaccia della manipolazione dell’informazione è seguito infatti da tempo nella Repubblica ceca con grande attenzione, soprattutto dopo che, nel 2016, una valutazione indipendente della sicurezza nazionale ha individuato proprio negli attacchi cibernetici e nei tentativi di influenzare lo stato d’animo dell’opinione pubblica una delle maggiori vulnerabilità del sistema di difesa ceco.

A partire dal 2014 si è in effetti registrata, come del resto un po’ in tutt’Europa, una proliferazione di siti web cechi (i lavori specialistici ne elencano almeno una trentina) che funzionano come cassa di risonanza della propaganda russa. Una fake new lanciata da media russi, come Russia Today (oggi RT), Sputnik etc., viene solitamente ripresa da canali russi in ceco che si presentano come “media indipendenti” e poi rimbalza sui social media cechi grazie a quello che è stato definito l’esercito dei troll (concentrati nelle “troll farm”, le fabbriche di notizie), efficacemente sostenuti da zelanti “utili idioti”. Così si sono ripetutamente diffuse interpretazioni dei fatti conflittuali e appiattite sulle posizioni di Mosca: inizialmente incentrati sull’annessione forzata della Crimea, la maggior parte di questi siti si è riorientata nel 2015 verso la minaccia rappresentata dai migranti, per poi venire monopolizzata da teorie più o meno cospirative riguardanti il covid.

Se nessun paese è stato immune da queste forme di guerra non lineare (spesso impropriamente definite “dottrina Gerasimov”), come hanno documentato anche i volumi pubblicati da Marta Ottaviani (Brigate russe) e Jacopo Iacoboni e Gianluca Paolucci (Oligarchi), è la risposta dei singoli paesi a essere molto differente, basata com’è su una diversa concezione della libertà di espressione e dei pericoli legati all’occupazione del cyberspazio. Nella parte d’Europa più contigua alla Russia si sono infatti moltiplicate non soltanto le strategie di difesa contro i possibili attacchi degli hacker, ma anche le iniziative di controllo dei contenuti propagandistici diffusi attraverso canali russi, siti apertamente manipolatori e falsi profili social.

Oggi esistono molti gruppi di monitoraggio della diffusione di fake news o che offrono materiali da utilizzare nelle scuole per decodificare il funzionamento della propaganda. Nel tempo è nato un gran numero di organizzazioni che controllano l’affidabilità delle notizie che si diffondono in modo virale in rete e cercano di promuovere una più diffusa consapevolezza sociale dei rischi, a partire dagli “elfi cechi”, creati sulla base del gruppo lituano nato nel 2014 e oggi diffusi in parecchi paesi europei, volontari non pagati che analizzano sistematicamente il lavoro dei troll russi. Più o meno a nostra insaputa, si è quindi sviluppata una rete europea di monitoraggio dell’informazione e delle modalità utilizzate dalla propaganda russa per condizionarla e destabilizzare l’opinione pubblica.

Ma perché la Repubblica ceca ha deciso di rendere operativo un Centro contro il terrorismo e le minacce ibride, con un’ampia gamma di compiti che vanno da tenere sotto controllo il terrorismo informatico a sorvegliare la diffusione delle campagne di disinformazione? La brutale annessione della Crimea rappresenta da questo punto di vista uno spartiacque, del resto anche nei documenti NATO il concetto di “guerra ibrida” fa il suo ingresso più o meno nello stesso periodo. L’audit del 2016, che ha individuato le vulnerabilità della sicurezza ceca, ha portato a una preoccupazione crescente non tanto nell’opinione pubblica, quanto nelle strutture di vigilanza.

Gli episodi di conflitto tra Repubblica ceca e Russia sono stati del resto negli ultimi dieci anni sempre più numerosi, a partire dalla tanto discussa rimozione della statua del maresciallo Ivan Konev. La vera escalation risale però all’aprile del 2021, con la drammatica conferenza stampa in cui il premier ceco annunciava il coinvolgimento dei servizi segreti russi nelle esplosioni avvenute nel deposito di munizioni di Vrbětice sette anni prima, che aveva provocato due vittime (poi confermato con molti particolari dal collettivo investigativo Bellingcat). All’annuncio ha poi fatto seguito l’espulsione di 18 diplomatici dell’ambasciata russa a Praga e la successiva condanna del parlamento europeo. Tutto ciò permette di capire meglio perché molti cechi avvertano oggi in modo molto più pressante rispetto ad altri paesi occidentali non solo la guerra in Ucraina, ma anche tutto il corollario di disinformazione, attacchi hacker e condizionamento degli umori nella società, che ha senz’altro avuto luogo negli ultimi anni.

In Italia abbiamo invece considerato pericolose soprattutto iniziative episodiche e ottuse come la famigerata censura del corso di Dostoevskij (che non a caso una così grande eco ha avuto a Mosca), mentre alcune decisioni prese a Praga verrebbero senz’altro considerate “provocazioni”. Si pensi per esempio alla decisione di cambiare il nome di un tratto stradale nei pressi dell’ambasciata russa a Praga, ora intitolato agli “Eroi ucraini”, o al fatto che ci sarebbero già una ventina di indagati per “apologia dell’aggressione russa all’Ucraina”.

Alla luce di quanto detto è chiaro invece che si inseriscono in un contesto di rapporti ceco-russi fortemente deteriorati da almeno un decennio, soprattutto per la crescente pressione della propaganda russa. E, come viene spesso ricordato, ad allarmare gli intellettuali cechi, oltre al ricordo dei carri armati del 1968, è proprio il precedente ucraino del 2014, quando l’intervento armato è stato preceduto da una virulenta campagna di disinformazione online, che molti commentatori hanno considerato parte di una guerra ibrida già in atto, mentre ben pochi se ne rendevano conto. Alla luce di tutto ciò siamo del tutto sicuri di essere consapevoli in Italia della posta in gioco e delle nuove strategie di guerra ibrida, non lineare, grigia, o comunque la si voglia chiamare?

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