(di Alessandro Catalano, professore di lingua e letteratura ceca presso l’Università di Padova e candidato socio di Memorial Italia)
Il “Putin’s Propaganda Man” è uno dei protagonisti del grande processo di riscrittura della storia russa e della guerra sulla memoria. Dopo una lunga riflessione, il senato accademico ha votato in modo unanime la sospensione fino a fine guerra della fellowship, già incomprensibilmente conferita nel 2014.
13 aprile 2022
Aggiornato 03 ottobre 2022 alle 21:40
Le università hanno sempre scelto i propri referenti politici con grande attenzione, ma anche con una buona dose di furbizia. L’elenco delle personalità a cui l’università di Ca’ Foscari ha conferito la sua honorary fellowship rappresenta un buon esempio della confusione liquida dei nostri giorni: solo per restare all’ambito umanistico, accanto a Mario Vargas Llosa e Wole Soyinka, troviamo personalità dello spettacolo come Dario Argento, Ottavia Piccolo e Roger Corman. Tra le scelte meno felici svettano quelle relative alla Russia: nel 2013 è stata conferita al regista russo Nikita Sergeevič Mikhalkov, già nel 2007 autore di un documentario su Putin, a lungo poi fustigatore dell’immoralità europea e dell’occidente decadente nella sua trasmissione televisiva Esorcista e ora convinto sostenitore della guerra in Ucraina.
C’è però un nome che spicca nell’elenco in modo particolare: nel 2014 il riconoscimento è stato infatti attribuito a Vladimir Medinskij, professore all’Università Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali. Il “Putin’s Propaganda Man”, per usare una definizione del “The New York Times” del 2012, ministro della cultura dal 2012 al 2020, è oggi tornato sulla ribalta internazionale come figura di spicco al tavolo dei negoziati tra Russia e Ucraina. Otto anni fa la decisione dell’ateneo veneziano di renderlo “membro onorario del corpo accademico” aveva sollevato le proteste degli studenti, di più di 200 docenti e di un nutrito numero di intellettuali russi, per serie motivazioni che vanno da un incredibile caso di plagio, alla discriminazione delle minoranze, dall’omofobia alla riscrittura della storia in senso chiaramente nazionalistico. Basti ricordare i Materiali e proposte per i principi di una politica culturale di Stato, prodotti dal suo ministero, in buona parte basati su discorsi di Putin, che esplicitamente parlavano di “rifiuto dei principi del multiculturalismo e della tolleranza”. Medinskij, che può fregiarsi del titolo di consigliere di Putin “per la memoria storica”, è di fatto uno dei protagonisti del grande processo di riscrittura della storia russa e della guerra sulla memoria che ha portato nell’ultimo decennio a quella mitizzazione della tradizione imperiale e sovietica, ripresa oggi con così tanto entusiasmo anche da vari commentatori italiani. Tra le altre cose a Medinskij è legato l’operato della Società di storia militare russa, che un ruolo tutt’altro che secondario ha avuto nella discutibile ridefinizione della storia del gulag come episodio “controverso” della storia russa e nella distorta interpretazione delle fosse comuni di Sandormoch.
Le comprensibili proteste in seno alla comunità accademica hanno fatto sì che nel 2014 la cerimonia, ormai troppo ingombrante a Venezia, si svolgesse a Mosca, dove l’allora prorettrice Silvia Burini, che coordina il Centro Studi sulle Arti della Russia, aveva consegnato il diploma al “collega”, con tanto di mantellina nera con il bordo rosso. Per Medinskij, come sempre in questi casi, si è trattato di un notevole riconoscimento, presentato in chiave interna come successo internazionale e in chiave esterna come “sfida alle sanzioni”. Nadja Tolokonnikova del gruppo Pussy Riot ha allora commentato sul quotidiano italiano “La Stampa” che il titolo era stato conferito a colui che è responsabile “per lo spostamento della politica culturale russa verso il fondamentalismo nazionalista e clericale” e “per aver trasformato la cultura russa in serva della politica”.
In Italia Medinskij ha ricevuto una certa attenzione anche come storico, grazie all’editore Sandro Teti che ha pubblicato il suo volume Miti e contromiti. L’Urss nella Seconda guerra mondiale, definito da Franco Cardini opera “meritoria” e “necessaria”. Secondo Sergio Romano l’autore farebbe la parte dell’“avvocato del Cremlino” e rappresenterebbe “un buon avvocato su cui Putin potrà contare ogniqualvolta il presidente della Russia cederà alla tentazione di collocare se stesso tra i grandi protagonisti della storia nazionale”. Peccato davvero che queste parole già dubbie rispetto a un politico che non ha mai nascosto un approccio molto disinvolto nei confronti del metodo scientifico, abbiano assunto nelle ultime settimane un significato così macabro. In un certo senso, indipendentemente dagli sviluppi futuri, resterà uno dei tanti paradossi della storia degli ultimi anni il fatto che proprio Medinskij possa essere oggi considerato una delle colombe al Cremlino.
Questo caso comunque non dovrebbe sorprendere più di tanto. Non va infatti dimenticato che, al contrario di pochi episodi, sia pure molto discussi, di discriminazione della cultura russa in Italia (a partire dal tragicomico caso del corso di Paolo Nori su Dostoevskij), scarsa e distratta attenzione è stata dedicata a ben più discutibili legami culturali con la Russia, a partire dal sostegno economico ricevuto da alcune università nell’ambito del programma “Russkij Mir”, il mondo russo, ideale strettamente legato a uno dei principali miti espansivi e aggressivi della storia russa, secondo il quale tutti coloro che parlano russo e avrebbero radici comuni vadano “protetti” dall’antica patria comune.
Come si è del resto visto anche nel campo della politica, allo scoppio di una guerra internazionalmente accolta in modo più o meno univoco, molti di questi legami culturali ed economici sono però improvvisamente divenuti scomodi. Anche il riconoscimento a Medinskij, cioè a uno dei principali promotori di quella politica culturale che ha di fatto preparato gli avvenimenti delle ultime settimane, è uscito quindi dal novero delle bizzarrie accademiche. E così a Ca’ Foscari i nuovi vertici dell’ateneo sono stati costretti a riprendere in mano una questione che sarebbe senz’altro stata più volentieri rimossa. Dopo una lunga riflessione, al quarantunesimo giorno di guerra, il senato accademico ha votato all’unanimità la “sospensione fino alla cessazione del conflitto in Ucraina” della fellowship a Medinskij. Il salomonico verdetto è stato ora duramente criticato da Memorial Italia, la costola italiana dell’associazione russa per la difesa dei diritti umani Memorial, chiusa a dicembre dalla Corte Suprema Russa, in quanto “Medinskij è anche uno dei volti della guerra di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, nonché uno dei teorici principali delle idee distorte della storia russa che sono state utilizzate dal presidente Putin per motivare l’aggressione”.
A voler essere malevoli, leggendo le motivazioni del senato accademico ci si potrebbe chiedere se, qualora parte dell’Ucraina fosse ceduta alla Russia, la fellowship potrà essere “scongelata”. Il 7 aprile i quotidiani locali hanno addotto motivazioni che vanno dalla mancanza di un regolamento di revoca (ma ci si sarà ricordati di controllare se c’era un regolamento per tutte le sanzioni a carattere economico?), passando per la presenza di studenti dell’ateneo in Russia, per arrivare a un improbabile contributo del professor Medinskij “nel ruolo politico che attualmente riveste, a far prevalere la ragione e a far tacere le armi, lasciando spazio al dialogo e alla riconciliazione”.
Se incomprensibile era stato il conferimento dell’onorificenza nel 2014, le titubanze di queste settimane non sembrano da meno e invitano a una riflessione su quanto i legittimi interessi economici di ogni istituzione pubblica entrino in contrasto non solo con il rigore scientifico ma anche con l’opportunità morale di certe iniziative. Fermo restando che sarebbe interessante sapere chi ha proposto a suo tempo questa onorificenza e per quali motivi, ci si è chiesti se per caso non possa essere legata anche ai rapporti economici di alcune strutture dell’ateneo con la Russia, al centro negli stessi anni di una serie di pungenti articoli dell’”Espresso”.
Ma la domanda di fondo resta comunque la stessa di otto anni fa: che necessità aveva l’ateneo veneziano di ammettere nel proprio corpo accademico uno dei corifei di Putin? Già allora un nutrito numero di intellettuali russi aveva notato che “nessuna considerazione di interesse materiale può giustificare il tradimento degli autentici valori accademici e l’inosservanza di concetti fondamentali come la dignità e l’onestà, senza i quali non è concepibile alcuna cultura”. E basta ora “congelare” un’onorificenza concessa con tale superficialità per fare i conti con il sostegno di fatto dato alla brutale politica culturale rappresentata da Medinskij?