Che cosa è successo davvero nel Donbass negli ultimi otto anni? E quali sono i legami con la guerra attuale?
03.03.2022
© MEDUZA
Intervista a Varvara Pahomenko, attivista per i diritti umani che ha collaborato con la missione ONU nella regione
Dal 2014 il conflitto armato nel Donbass ha attraversato ondate di acutizzazione o di smorzamento. Ci sono state perdite su ambo i fronti, ma a febbraio del 2022 la situazione era già meno critica (come minimo rispetto al 2014 e al 2015). Il 24 febbraio, tuttavia, Vladimir Putin ha deciso di «denazificare» e «demilitarizzare» l’Ucraina, con il pretesto di difendere le repubbliche autoproclamate di Doneck e di Lugansk (DNR e LNR), e ha attaccato il paese vicino. «Meduza» ha chiesto come sono andate le cose nel Donbass dopo il 2014 a Varvara Pahomenko, attivista dei diritti umani ed esperta in diritto umanitario che da 2016 al 2018 ha collaborato con la missione ONU in Ucraina, e in seguito ha diretto le attività in loco di Geneva Call, organizzazione umanitaria internazionale.
— Lei ha lavorato per molti anni in Ucraina e nel Donbass. Si aspettava la guerra attuale?
— Quando la DNR e la LNR sono state riconosciute, la prima domanda è stata: riconosciute con quali confini? Sia Doneck sia Lugansk hanno annunciato che considerano proprio territorio tutto quello delle regioni rispettive, hanno detto che questi territori sono occupati dall’Ucraina, trasmettevano regolarmente le previsioni del tempo per le zone occupate, conducevano programmi umanitari per i loro abitanti. C’era una sorta di retorica speculare: «Siete occupanti!» – «No, gli occupanti siete voi!».
Quindi subito dopo il riconoscimento della DNR e della LNR ho avuto l’impressione che ci sarebbe stata un’escalation nel Donbass.
Poi c’è stato l’annuncio che il riconoscimento si estendeva ai confini delle regioni, ed è diventato chiaro che probabilmente la DNR e la LNR, con il sostegno delle forze russe, si sarebbero addentrate nell’Ucraina. Ma la cosa si è rivelata di gran lunga peggiore: è un’invasione in piena regola.
Secondo me nessuno si aspettava davvero la guerra. Ma a me era chiaro che, se questa guerra fosse cominciata, le conseguenze sarebbero state catastrofiche per entrambi i fronti. Mi era anche chiaro che non ci sarebbe stata una vittoria rapida.
— Perché?
— In quanto dipendente di organizzazioni umanitarie, negli ultimi anni ho lavorato con l’esercito e le agenzie di sicurezza dell’Ucraina; abbiamo fornito loro informazioni sul diritto umanitario internazionale, organizzato addestramenti sulle norme per difendere la popolazione civile. E ho visto come è cambiato quell’esercito: è diventato molto più professionale e molto motivato. In tutti gli ultimi anni si sono preparati interiormente alla guerra.
Hanno molta esperienza nel condurre le ostilità su terra. Tutto l’esercito ucraino ha fatto turni nel Donbass, e non una sola volta.
Nel Donbass, come minimo, hanno perfezionato la coordinazione tra vari enti di sicurezza, con la difesa territoriale e le amministrazioni locali. Hanno creato uno speciale servizio di collaborazione civile-militare per coordinare le azioni con le organizzazioni umanitarie e la popolazione locale. Dal 2017 l’esercito ha iniziato ad adottare le procedure per implementare le norme del diritto umanitario internazionale. Battaglioni di volontari sono stati integrati nelle strutture di difesa ufficiali dell’Ucraina, e la coordinazione è migliorata. Sono iniziati processi penali contro i militari e i volontari che hanno commesso crimini nel Donbass. Non era tutto ideale, ma in otto anni ci sono stati cambiamenti enormi.
Non sono sicura che l’esercito russo abbia l’esperienza necessaria a controllare in maniera efficace un territorio esteso. Abbiamo visto quanto fosse cattiva la sua coordinazione in Georgia nel 2008. Poi c’è stata la Siria, dove hanno acquisito varie abilità, ma in Siria sono state mandate soprattutto l’aviazione e l’artiglieria russa, non enormi forze di terra.
È importante capire che l’Ucraina si è sentita molto più un paese unito negli otto anni di guerra nel Donbass che nella precedente ventina d’anni, seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Quando avevo appena iniziato a lavorare nel Donbass, un’abitante locale mi disse che tempo prima pensava che la loro guerra non interessasse a nessuno nel paese, ma nel 2016 era andata per la prima volta in vita sua nella regione di Leopoli e proprio nel centro della città aveva visto una targa con i ritratti dei militari morti nel Donbass, e aveva capito che la guerra era arrivata in ogni città ucraina.
L’esercito dell’Ucraina è risultato bilingue: nel Donbass avevano combattuto allo stesso modo persone originarie delle regioni di lingua russa o ucraina. Inoltre la guerra ha diviso la gente secondo vari fronti, le persone vivevano in spazi di informazione diversi, dove hanno iniziato a formarsi identità civili diverse. Per molti in Russia e in Ucraina è stata probabilmente una sorpresa che, adesso, anche la gente nella parte della regione di Doneck controllata dall’Ucraina ha iniziato ad aiutare attivamente l’esercito ucraino.
— Lei ha lavorato nel Donbass nei periodi più acuti del conflitto. Che cosa succedeva? Come è apparso un fronte ben definito?
— La fase attiva delle operazioni belliche è durata dalla fine della primavera del 2014 a febbraio del 2015. In questi otto-nove mesi c’è stato il maggior numero di morti. In quel periodo i combattenti andavano avanti e indietro, c’erano scontri per Debal’cevo, scontri [per Ilovajsk], che sono stati chiamati la sacca di Ilovajsk. Dopo questa fase intensa la linea del fronte si è stabilizzata ed è rimasta identica fino al 24 febbraio del 2022.
La LNR e la DNR non sono l’Abcasia né l’Ossezia del sud, in cui c’erano in gran parte confini etnici storicamente stabiliti. Nel Donbass i confini passavano dove si era fermata la linea del fronte. E le persone che ci vivevano da entrambe le parti erano del tutto identiche. Le periferie di Doneck, di Avdeevka e di Mar’inka si sono ritrovate nella zona controllata dall’Ucraina. Stanica Luganskaja era un sobborgo di Lugansk formato da dacie, nelle cui serre si coltivava verdura per il mercato di Lugansk. È rimasta nella zona controllata dall’Ucraina.
Limitandosi all’aspetto militare di questo conflitto, la guerra nel Donbass è iniziata con l’intervento di gruppi paramilitari russi. Dopo l’annessione della Crimea [nel febbraio-marzo del 2014], a inizio di aprile dello stesso anno gruppi prorussi hanno occupato il Servizio di sicurezza dell’Ucraina a Doneck e a Lugansk. Pochi giorni dopo si è unito a loro Igor’ Girkin che, con i suoi drappelli dalla Crimea, ha occupato enti statali a Slavjansk e Kramatorsk.
Kiev ha annunciato operazioni antiterrorismo contro di loro. Doneck e Lugansk si sono proclamate repubbliche popolari. Dopodiché gli scontri si sono intensificati fino ad agosto [del 2014]. Ad agosto ci sono stati scontri per la cittadina di Ilovajsk nella regione di Doneck. Alla fine di agosto le forze ucraine erano circondate nella regione di Ilovajsk; come sostiene il governo ucraino, con l’aiuto di truppe russe. Molti sono stati presi prigionieri o sono morti in seguito alle ferite. In questa situazione sono stati firmati i primi accordi di Minsk.
I secondi accordi di Minsk e gli scontri per Debal’cevo e Mar’inka a inizio del 2015 hanno di fatto determinato la linea del fronte, benché la cosiddetta zona grigia che divideva le posizioni delle due parti rimanesse molto larga: da 2-3 a 10-15 chilometri. In questo territorio hanno continuato a vivere decine di migliaia di civili: senza amministrazione municipale, senza polizia o medici, spesso senz’acqua né corrente elettrica. Là i militari erano gli unici rappresentanti dello stato.
Gli accordi di Minsk non sono stati realizzati. Da quel momento e fino all’estate del 2019 i due fronti si sono avvicinati sempre più, spesso riconquistando ogni chilometro o qualche centinaia di metri e impiantandovi un governo civile. E negli anni 2018-2019 ormai erano molto vicini, a portata di tiro; li separavano appena 200 metri.
A quel punto il numero di vittime era ormai molto calato. Si era quasi smesso di usare armi pesanti. Se nel primo anno di guerra si è usato tutto (aviazione, artiglieria, carri armati) e perlopiù sono stati proprio questi armamenti a fare vittime civili, in seguito, negli anni 2018-2019, è cambiata la natura delle operazioni belliche: i territori lungo la linea di contatto sono stati minati. La regione si è trasformata in una delle più minate al mondo, è iniziato il cecchinaggio e sono stati usati droni.
Era una guerra di posizione, entrambe le parti hanno scavato trincee molto profonde ed entrambe controllavano la linea del fronte. Ogni tanto c’erano brevi periodi di combattimenti intensi, ma poi arrivava la tregua e tutto si calmava. In quel periodo ci sono state significativamente meno vittime civili, dovute soprattutto già alle mine e agli ordigni inesplosi.
Nel 2019 è giunto al potere [Vladimir] Zelenskij, che aveva in programma di realizzare la pace nel Donbass e ristabilire legami economici e umanitari, e nella zona del conflitto ha iniziato a muoversi qualcosa. Bisogna dire che Zelenskij è stato chiamato prorusso e molto criticato, anche dai militari. Ma oltre il 70% della popolazione sosteneva il suo programma.
In quel periodo [l’inizio della presidenza di Zelenskij] sono state realizzate alcune iniziative umanitarie: è stato riparato il ponte di Stanica Luganskaja, per facilitare l’attraversamento della linea del fronte. Soltanto là era permesso passare tra la zona della regione di Lugansk controllata da Kiev e quella non controllata da Kiev. Sono state liberate alcune centinaia di persone fatte prigioniere [durante il conflitto], in Ucraina, nella DNR e nella LNR, in Russia. Hanno iniziato a ritirare le truppe da tre zone pilota, oggetto di un accordo sottoscritto a settembre del 2016.
A giugno del 2020 le due parti hanno concluso una tregua solida, e nei cinque mesi seguenti quasi non ci sono state vittime. C’erano pochi scambi di colpi, non c’è stata neanche quasi nessuna vittima militare. Ma a primavera del 2021 il conflitto si è riacutizzato. Nel Donbass non c’è stata nessuna dinamica militare che potesse provocare questa acutizzazione. Il lungo rispetto della tregua ha dimostrato che le due parti sono capaci di coordinare le proprie strutture e garantire l’esecuzione degli ordini.
Per questo sono comparse voci di un retroscena politico di questa acutizzazione, cioè che i combattimenti fossero legati agli accordi. Tanto più che avevamo assistito a cose del genere anche in precedenza. Dopo passi avanti nei negoziati c’erano spesso fasi di stallo e peggioramenti dei rapporti, che spesso sfociavano in recrudescenze sul fronte e in grandi quantità di vittime: per esempio, gli scontri per Debal’cevo sono avvenuti dopo i secondi accordi di Minsk. Nell’estate del 2021 c’è stato il summit tra Vladimir Putin e Joe Biden, dopodiché la situazione sul fronte si è di nuovo calmata.
Insomma, fino alla metà di febbraio del 2022 la situazione nel Donbass era molto più tranquilla che prima [della tregua] di giugno del 2020.
— Lei ha detto che dal 2016 in poi sono morti meno civili che in precedenza. Quali erano le cause di morte in quel periodo?
— Il Donbass è una regione altamente urbanizzata. Era la regione ucraina più urbanizzata, con la popolazione più numerosa. Nella regione di Doneck il 90% della popolazione vive nelle città. E i combattimenti si svolgevano perlopiù proprio nella parte urbanizzata delle regioni di Doneck e di Lugansk, il fronte passava lungo i confini delle città. Lugansk e Mariupol’ erano vicinissime alla linea del fronte. E se si sparava da entrambe le parti, ne soffrivano anche i civili, perché le armi di precisione venivano usate molto di rado.
Per esempio, [entrambe le parti] hanno usato i sistemi [lanciarazzi] «Grad». All’inizio del 2017 io lavoravo a Doneck, in quel momento il conflitto si è acutizzato ed entrambe le parti hanno iniziato a utilizzare l’artiglieria: dal territorio della DNR sparavano su Avdeevka, da quello ucraino sui quartieri di Doneck.
— Qual era la causa di questo inasprimento?
— All’epoca io avevo l’impressione che fosse l’ennesimo tentativo di negoziati. Nel 2016 c’erano stati molti progressi, politici ed economici, le due parti negoziavano attivamente, e a molti sembrava che si fosse arrivati a un qualche accordo su una coesistenza pacifica. Ma a gennaio-febbraio del 2017 è ricominciata l’escalation bellica e l’embargo delle merci.
Fino al 2017 è proseguita una parziale integrazione della DNR e della LNR nell’economia ucraina. Tutte le grosse aziende del Donbass continuavano a fornire i propri prodotti all’Ucraina. Il fronte interrompeva le catene industriali, che però a lungo non si sono spezzate del tutto. Per esempio, si estraeva il carbone nel territorio del Donbass non controllato dall’Ucraina, ma lo si lavorava in quello controllato dall’Ucraina. Per il funzionamento delle fabbriche questa produzione doveva spostarsi in Ucraina. Ed è ciò che è successo nel 2017.
Ma quando il conflitto si è acutizzato, all’inizio del 2017, la DNR la LNR e hanno annunciato la nazionalizzazione di tutte le imprese, che sono passate dalle mani degli imprenditori ucraini alla compagnia «Vneštorgservis», registrata nell’Ossezia del sud. In seguito si sono interrotti tutti i legami economici tra la DNR e la LNR e il resto del territorio ucraino. A quel punto si è capito che diminuivano le possibilità di reintegrare la DNR e la LNR nell’Ucraina, perché era stata l’economia a tenere tutto insieme.
Ciononostante i civili hanno continuato ad attraversare [il confine]: c’era circa un milione di attraversamenti mensili in entrambe le direzioni.
— Chi attraversava il confine?
— Pensionati che continuavano a ricevere la pensione in Ucraina, studenti, persone che avevano ancora famigliari in Ucraina o ci andavano per farsi curare.
Ma quando è iniziata la pandemia tutti i contatti si sono interrotti. I governi della DNR e della LNR hanno chiuso i posti di controllo sul fronte, ufficialmente per impedire che si diffondesse la COVID-19. Quando li hanno riaperti, era possibile attraversarli soltanto con permessi speciali, forniti da quei governi. E il numero di attraversamenti si è ridotto fino a circa diecimila [al mese].
Negli ultimi due anni sono quasi scomparsi i legami umanitari che rimanevano fra le due parti in conflitto. La gente ha continuato ad andare in Ucraina, ma ormai perlopiù facendo il giro dalla Russia. Dovevano arrivare nella regione di Rostov ed entrare in Ucraina tramite Har’kov. Se in precedenza si poteva andare da Doneck a trovare i parenti a Kramatorsk in un’ora-un’ora e mezza, ormai ci volevano 24-36 ore.
— Quante persone vivevano nel territorio della DNR e della LNR a partire dal 2014?
— Non ci sono statistiche precise, come in tutti i conflitti. Prima dell’inizio del conflitto nel 2014 nei territori delle regioni di Doneck e di Lugansk vivevano in complesso circa 7 milioni di persone. Se si divide grossolanamente il territorio tra quello che è finito sotto il controllo dell’Ucraina e quello controllato dalla DNR e dalla LNR, in queste repubbliche non riconosciute è rimasta circa la metà della popolazione. Certo, molti sono andati via. Direi che in complesso nei territori non controllate dall’Ucraina vivevano 3 milioni di persone [dei 4,1 milioni che vivevano nella regione di Doneck].
— Esistono cifre precise sulle vittime nella zona del conflitto in tutto il periodo bellico, cifre che siano confermate da strutture internazionali?
— Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, in tutto il periodo del conflitto sono morte oltre 13000 persone e ci sono stati 42-44000 feriti. Tra costoro, si contano circa 3300 vittime civili e 7-9000 feriti civili (da entrambe le parti in conflitto). Le forze di difesa dell’Ucraina hanno contato circa 4000 vittime e 10000 feriti. Nei gruppi armati non governativi che si oppongono a Kiev si contano 5700 vittime e 13-14000 feriti.
Inoltre, due terzi delle vittime e metà dei feriti si riferiscono ai primi due anni di guerra. In quel periodo, circa l’85-90% delle vittime civili è stato dovuto a mortai, cannoni, obici, carri armati e lanciarazzi multipli che hanno preso di mira le zone abitate. In seguito la quantità di vittime civili (e militari) è diminuita regolarmente ogni anno.
— Che ruolo hanno svolto in questo conflitto gli accordi di Minsk? Perché non sono stati realizzati?
— I primi accordi di Minsk sono stati firmati mentre si combatteva per Ilovajsk [nella regione di Doneck], per far tacere le armi. Ma alla fine del 2014, durante gli ennesimi negoziati, sono ricominciati gli scontri, si combatteva per l’aeroporto di Doneck. In questo contesto sono stati firmati i secondi accordi di Minsk, seguiti da aspri combattimenti per Debal’cevo. In entrambi i casi, a Ilovajsk e a Debal’cevo, il governo ucraino ha segnalato notevoli interferenze dei militari russi a sostegno delle forze separatiste.
Gli accordi di Minsk, firmati entrambe le volte mentre l’Ucraina era sotto pressione militare, stabilivano di iniziare in Ucraina un processo politico che concedesse più autonomia al Donbass e di ritirare le truppe dal Donbass, il disarmamento. Ma non ci si erano messi d’accordo sulla sequenza degli eventi e sul ruolo che dovesse svolgere la Russia.
L’Ucraina insisteva che non era possibile svolgere referendum nel Donbass riguardo al suo status finché non l’avessero lasciato i soldati russi. Infatti, finché c’erano i soldati, non era possibile garantire l’indipendenza di questo referendum. Non sarebbero potuti tornare i profughi né le persone favorevoli all’Ucraina. E se un nuovo governo, formato in tali condizioni e leale alla Russia, fosse entrato a far parte dell’Ucraina, sarebbe diventato una seria minaccia alla sovranità del paese.
Gli accordi di Minsk sono stati un vicolo cieco. A Kiev capivano che non si sarebbero messi d’accordo politicamente, ma una soluzione con la forza era impossibile: era chiaro che dietro Doneck e Lugansk stavano le truppe russe, superiori in forza. A un certo momento si è stabilizzato lo status grigio [delle repubbliche non riconosciute]. La regione si è trasformata nell’ennesimo conflitto congelato, come il Nagorno Karabah.
Nei mezzi di comunicazione ucraini, la guerra è passata in secondo piano. Già nel 2016 di sera la gente si sedeva ai tavolini all’aperto dei tanti caffè lungo il viale Puškin nel centro di Doneck, beveva cocktail e non faceva caso ai proiettili. Ma bastava allontanarsi di 5-10 chilometri dal centro della città, verso i quartieri Kirovskij o Petrovskij, più vicini al fronte, per trovare gente che spesso si riparava nelle cantine per la notte.
Molti profughi sono fuggiti dal Donbass: alcuni si sono stabiliti in Russia, altri in Europa. La maggioranza di quelli che sono andati via e che conosco personalmente si sono rifatti una vita altrove, perché hanno capito che non si torna più indietro. E molti pensavano che la DNR e la LNR avrebbero conservato a lungo questo status grigio.
— Nei primi due giorni di guerra, il 24 e 25 febbraio, non ci sono state molte vittime civili, mentre dal 26 febbraio il governo ucraino ha già iniziato a comunicare centinaia di morti. Che succede?
— Secondo i dati del Ministero della sanità ucraino per il 27 febbraio, tra i civili ci sono stati 350 vittime e oltre 1500 feriti. È già circa un decimo delle vittime civili che ci sono state nel Donbass in otto anni. Per di più, non ci sono ancora bombardamenti significativi diretti verso le zone civili. Ciò che abbiamo visto finora, nei primi cinque giorni di guerra, sono le cosiddette vittime collaterali. Vengono presi di mira vari obiettivi strategici, dal doppio ruolo: ponti, stazioni ferroviarie, cisterne.
Ma dato che prima o poi gli armamenti di precisione finiranno, con ogni giorno aumenta l’uso dell’artiglieria, usata «a tappeto»: sono i cosiddetti bombardamenti a tappeto. A Har’kov, a Černigov, a Sumy, nelle regioni di Doneck e di Lungansk la situazione è pessima. Proprio negli ultimi due giorni è aumentato nettamente il numero di vittime civili.
— Molti fanno confronti con la guerra nei Balcani. Sono conflitti simili?
— Sono simili nel senso che un esercito ne combatte un altro e circonda le città, ma certo nei Balcani entrambe le parti non avevano così tante armi complesse e avanzate. Penso che i combattimenti attuali in Ucraina siano confrontabili con quelli della Seconda guerra mondiale.
Dopo la Seconda guerra nel mondo sono diminuiti i conflitti tra stati. In genere ci sono state guerre ibride, o all’interno dei paesi, e naturalmente i partecipanti a queste guerre avevano un altro livello di armamenti. Ma il fatto che nel caso attuale entrambe le parti abbiano un’aviazione, un’artiglieria, armamenti moderni, lo rende una catastrofe del XXI secolo.
— Che succede ora nel Donbass?
— Penso che il Donbass sarà una delle vittime principali di questa guerra. Vedo messaggi e fotografie dagli abitati di confine del Donbass: di queste cittadine non resta quasi nulla. Da lì arrivano messaggi di gente che chiede un corridoio umanitario per andar via, perché non ha più cibo, e il fuoco è ininterrotto. Se a Kiev la gente ha un po’ più di riserve alimentari a casa, nel Donbass sono molto poveri. E in genere non ha cibo da parte per più di qualche giorno. Negli ultimi giorni a Doneck non c’è stata acqua. E certo mi fa molta pena sentire che la guerra è stata dichiarata per difendere la popolazione del Donbass e la gente di lingua russa, quando il sindaco di Har’kov racconta in russo che le autorità cittadine non riescono a distribuire il pane nei rifugi antiaerei, perché i convogli vengono presi di mira.
Se questa guerra continuerà ancora qualche giorno, una settimana, scoppierà una crisi umanitaria considerevole nelle grandi città. Ci saranno problemi con i rifornimenti di cibo e di medicine. Una mia conoscente che insieme alla famiglia è riuscita a scappare da Kiev mi scrive ora che pensa solo alla sorella, rimasta lì nella cantina dell’ospedale ostetrico ad aspettare il cesareo, mentre le medicine non bastano.
— Molti fuggono dall’Ucraina, ma molti altri restano. Perché?
— La gente scappa in tutti i paesi europei vicini: la Polonia, la Romania, la Slovacchia, la Moldavia. Sono già andate via oltre 520000 persone. La sola Moldavia ha raccolto oltre 40000 persone. Sono certo cifre enormi per uno dei paesi europei più poveri, con 2,6 milioni di abitanti.
Ciò che succede adesso ai confini è spaventoso: la gente sta in fila per 20-30 ore per andar via. C’è un numero limitato di guardie di frontiera ucraine che possano lasciar passare la gente. Semplicemente non bastano le risorse.
Le ferrovie ucraine funzionano senza sosta. Ho letto che ogni ora i treni portano via fino a 4000 persone. Ma comunque chi se ne va è fortunato. Non è possibile evacuare tanto in fretta città enormi. Per i malati e gli anziani un tale viaggio è inconcepibile.
Diversi civili fanno la scelta consapevole di non abbandonare le proprie città e villaggi. Molti si sono uniti alla difesa territoriale. Naturalmente in tutti questi ultimi anni il sistema di difesa territoriale si è preparato attivamente. Molti si erano iscritti e hanno ricevuto un addestramento; ora queste persone hanno subito preso le armi.
E quelli che non vanno in guerra adesso aiutano l’esercito o la popolazione. Vedo come si sono dati da fare i medici, come persone comuni preparano i viveri, li distribuiscono ai militari e civili. L’organizzazione autonoma è sempre stata ottima in Ucraina e dal 2014 si è ancora rinforzata. E adesso tutte queste associazioni civili, che prima si occupavano soltanto di progetti umanitari, si sono attivate e difendono le città.
— I profughi del Donbass continuano ad attraversare il confine verso la Russia?
— Negli ultimi giorni non ho visto nessun messaggio. Un paio di giorni fa (il 24 febbraio, ndr) ho visto un annuncio da parte della DNR che non è più necessario inviare profughi in Russia, visto che la situazione è sotto controllo. Mi è sembrato molto strano. Mi sono iscritta a chat di Doneck e di Lugansk, dove ogni 20 minuti passano informazioni sui bombardamenti e sulle infrastrutture distrutte.
— Cioè adesso nel Donbass si spara da entrambe le parti?
— La linea di contatto che c’era nel Donbass è scomparsa. Là ora si mescolano di continuo militari di entrambe le parti, avanti e indietro. E sparano in ogni direzione.
— Le operazioni belliche possono spostarsi alle zone di frontiera russe?
— Finora non ci sono stati episodi del genere. Se si guarda la carta dei combattimenti, le truppe russe si sono addentrate nel paese da sud, da sud-est, da est, da nord-est e da nord, e i combattimenti sono ormai lontani dai confini nazionali.
— C’è una speranza sia pur minima nei negoziati?
— Mi auguro proprio che i negoziati odierni (l’intervista è del 28 febbraio, ndr) siano utili, ma non so se sperarci. Ma so che sta iniziando la fase peggiore della guerra: gli scontri in città. È un incubo per tutti: per l’esercito aggressore e per la popolazione civile. La città in cui entra un esercito estraneo corre un rischio enorme, perché molti possono cadere vittime dei combattimenti. In genere l’ingresso della città è preso di mira dall’artiglieria [dell’esercito aggressore]. In una città sconosciuta e nemica i soldati hanno paura di tutto e rischiano di sparare ai civili. Adesso vedo di continuo messaggi video in cui la gente tira bottiglie Molotov, fa prigionieri, e anche le autorità hanno invitato i civili ad attuare qualsiasi azione per fermare i mezzi militari.
— Il diritto umanitario internazionale dice che durante le operazioni belliche i militari hanno diritto di sparare, ma non ai civili. Come si può rispettare questo principio se la guerra si svolge nelle città?
— Le convenzioni di Ginevra regolamentano le attività belliche. Durante la guerra, in qualunque momento, si può sparare e uccidere soldati e persone armate che partecipano ai combattimenti, e bombardare le strutture militari occupate da costoro. Non si possono mai prendere di mira i civili. È un crimine di guerra. Se gli scontri si svolgono in città, è difficile monitorare dove stanno i militari e dove i civili. Di conseguenza questi ultimi spesso rimangono uccisi non da bombardamenti mirati, ma per caso. Sono le cosiddette vittime collaterali.
Il diritto umanitario internazionale afferma che i militari dovrebbero fare tutto il possibile per evitare o minimizzare le vittime collaterali. Prima di tutto, riflettendo sulle armi da usare. Se gli scontri si svolgono in zone densamente popolate, non si possono usare armi dall’effetto indiscriminato. Non si può sparare con i lanciarazzi «Grad» e gli «Uragan» nella città dove si trovano militari da qualche parte, perché ci sono grosse probabilità di fare vittime civili. E bisogna rifiutarsi di utilizzare armi simili, perché il loro utilizzo sarà considerato un crimine di guerra. In generale è necessario evitare gli scontri nelle città, piene di civili.
Le autorità civili e militari ucraine avvisano continuamente gli abitanti dei bombardamenti, invitano ad andare subito nei rifugi antiaerei. Nei messaggi degli amici ricorrono le parole: allarme aereo, oscuramento, rifugio.
Bisogna capire che Kiev, Har’kov e Doneck sono città con milioni di abitanti. A Kiev e nei dintorni vivono 4 milioni di persone, a Har’kov un milione e mezzo; prima del 2014 Doneck aveva superato la soglia del milione.
— È probabile che ci siano molte perdite da ambo le parti. Secondo la convenzione di Ginevra, in che modo le parti in conflitto dovrebbero trattare i prigionieri e i morti?
— Dalle cifre non si capisce niente. In qualsiasi guerra ambo le parti cercano di gonfiare le perdite dell’avversario e tacere le proprie. Mi sono iscritta a canali Telegram (ucraini ma anche della DNR e della LNR); non ho mai visto una tale valanga di foto di cadaveri e prigionieri.
Il diritto umanitario internazionale dice che bisogna trattare con rispetto i prigionieri e i morti. Per quanto possibile, bisogna identificare i morti e informare la parte avversa e i parenti. Quando è possibile, restituire i cadaveri. Se i prigionieri si sono arresi, ciò significa che non combattono più e che non li si può uccidere. È vietato torturare i prigionieri, bisogna nutrirli e fornire loro assistenza medica. Li si può interrogare, ma loro sono obbligati a fornire soltanto il proprio nome, grado, data di nascita e numero identificativo, non tutto il resto. Bisogna tenerli al sicuro e per quanto possibile restituirli all’avversario quando si interrompono i combattimenti, durante una tregua o tramite speciali accordi.
— Dove bisognerebbe tenere i prigionieri?
— Idealmente in campi speciali per prigionieri di guerra. Ma visto che parliamo di una guerra che dura da quattro-sei giorni, non c’è ancora nessun campo.
— Ho capito bene che un soldato dell’esercito nemico non è considerato un criminale di guerra?
— Secondo il diritto internazionale, se una persona combatte anche obbedendo agli ordini, ciò non lo rende un colpevole. Ma se ci sono informazioni che il prigioniero ha compiuto crimini di guerra (ha ucciso civili, ha torturato prigionieri, ha rubato o razziato), invece di restituirlo al nemico lo si può sottoporre a processo.
Al momento gli enti di difesa ucraini hanno iniziato una raccolta centralizzata di informazioni sui prigionieri. A quanto ne so, anche sui morti.
— Dove sono conservati ora i corpi dei soldati russi uccisi?
— Al momento, grosso modo da nessuna parte. È questo il problema. Neanche raccoglierli è sempre possibile. I combattimenti non si interrompono. Per raccogliere i morti occorre una tregua. Nessuno rischierà la propria vita per correre sotto il fuoco e raccogliere cadaveri, soprattutto quelli dei nemici. Anche se in realtà non dovrebbe esserci differenza se i morti appartengono al proprio esercito o a quello nemico.
Per quanto possibile bisogna raccogliere documenti, fotografare il corpo e il luogo dove si trova, per poter in seguito identificarlo e trasmettere queste informazioni. In questo modo i prigionieri e i morti non ingrosserebbero le fila degli scomparsi, che è la cosa peggiore per i famigliari.
Traduzione a cura di Luisa Doplicher
Foto: Wikimedia commons