I fili spezzati della memoria di Irina Ščerbakova

Irina Ščerbakova

I fili spezzati della memoria

Che immagine hanno i giovani russi del Novecento? Cosa sanno delle repressioni politiche, del GULag?

Nella società russa contemporanea la questione del rapporto con il proprio passato e con quello che le generazioni sovietiche del XX secolo hanno vissuto è particolarmente spinosa. Ne sono prova le recenti e interminabili discussioni riguardo al modo di insegnare la storia, a cosa inserire nei manuali scolastici, a quale immagine del passato sovietico emerga tra chi può dire di essere nato nel secolo scorso soltanto in senso formale.

Cosa rende oggi attuale e aspra la lotta politica, sociale e mediatica per il passato? Esiste una serie di motivazioni, ma la principale è la sostituzione della storia a favore dell’ideologia, un’operazione compiuta nell’ultimo decennio. Non a caso di questi tempi è sempre più in voga la formula di epoca staliniana, secondo cui la storia è soltanto «la politica rivolta al passato»[1]. A maggior ragione dunque è importante comprendere come i giovani oggi costruiscano (se lo fanno) la propria visione del passato sovietico e se esista uno spazio reale di «memoria culturale» del Terrore staliniano.

La risposta a questa domanda riguarda avvenimenti di 25 anni fa, quindi fatti accaduti appena prima che nascessero gli attuali ventenni.

L’assurdità della situazione storica dell’URSS negli anni prima della perestrojka stava nel fatto che milioni di persone erano in possesso di una quantità enorme di informazioni sulle repressioni ed erano testimoni, vittime, complici, a volte colpevoli, e spesso tutte e quattro le cose insieme.

Eppure il loro vissuto non fu elaborato in una narrazione coerente né dai protagonisti né dalla società di allora. Perciò il rifiuto delle interpretazioni ufficiali dei fatti storici a opera del partito e lo sguardo altro sul passato si erano formati anche sotto l’influsso della memoria delle repressioni politiche che, nonostante tutti i divieti, era presente. Quando questa memoria invase la stampa del tempo, raggiungendo milioni di lettori, comparvero la perestrojka e la glasnost’.

Oggi però è proprio il periodo della perestrojka a suscitare nei giovani più domande, incomprensioni, giudizi negativi. Per loro quel periodo non è associato alla glasnost’ e all’operazione di recupero della verità sulle repressioni politiche, nascosta per decenni, all’apertura degli archivi, alla pubblicazione dei fatti e delle cifre, ma si lega al tracollo di una vita tranquilla, alla perdita del lavoro per molti cari, all’emigrazione forzata a causa della disgregazione dell’impero sovietico.

Per me gli anni Novanta della perestrojka sono qualcosa di strano, incomprensibile. Conoscendo la storia e gli stili di vita nell’URSS, mi riesce difficile immaginare come vivesse la società durante quei «grandi cambiamenti». A essere più precisi non riesco a immaginarmi in che modo la gente potesse sopportare tutto questo. Ho fatto spesso delle domande alle mie nonne, ai nonni e ai miei genitori. Erano due generazioni diverse, ma con punti di vista simili.[2]

Nel ricordo delle famiglie sparse in tutta la Russia quegli anni riaffiorano come anni di lotta per la sopravvivenza. Tale trauma ha sovrastato nella coscienza di massa tutti i risultati della perestrojka e della glasnost’, lasciando soltanto un senso di sconforto e di profonda disillusione.

Per mia nonna che aveva lavorato per vent’anni come segretaria della divisione del partito di Saransk la riorganizzazione degli anni Ottanta terminata con il crollo dell’URSS fu una vera e propria tragedia. Il muro era stato abbattuto, ma i mattoni non servivano a nessuno. Per la nonna che aveva un solo modo di vedere il mondo era difficile capire e abituarsi al nuovo[3].

Anche coloro che volevano le riforme democratiche e sostenevano la perestrojka gorbacioviana si ritrovarono ben presto alle soglie dell’emergente economia di mercato. Al contempo iniziò a venir meno il prestigio e il significato della storia, della letteratura e delle scienze umane in generale. La specificità della memoria russa sul passato e della memoria sul GULag consiste nell’essere stata tramandata soprattutto attraverso testi scritti, documentali e letterari. Ci sono però sempre meno lettori a cui destinarli.

A metà degli anni Novanta, se non prima, fu chiaro che l’interesse della società per il tema delle repressioni stava scemando e che cresceva una nostalgia per la cosiddetta vita sovietica «agiata». La storia e il passato non interessavano molto i riformatori arrivati al potere che non vedevano il collegamento tra la formazione di una società civile con valori democratici e un’efficace attuazione delle riforme. Il Paese era senza soldi, pensioni e stipendi non venivano pagati, perciò il governo adduceva ragioni «oggettive», economiche, per spiegare la mancata volontà di investire nell’edificazione di un memoriale dei caduti, di monumenti e musei dedicati al Terrore staliniano.

Così negli anni Novanta non venne promossa una politica sia pure minimamente coerente sui rapporti con il passato. Il governo di Eltsin si ricordava delle repressioni sovietiche soltanto in prossimità delle elezioni, quando spuntava la minaccia di una vittoria dei comunisti. Quel governo mise in campo una strategia populista, temendo la reazione negativa di quella parte della popolazione che lo osteggiava in modo aperto. Proprio per questo il processo al PCUS del 1992 che doveva decretare la condanna del regime comunista terminò in sostanza con un nulla di fatto. Non venne emessa nessuna sentenza giuridico-legale sullo stalinismo né sul passato sovietico nel suo complesso. I colpevoli non furono condannati, il lustrismo non venne messo in atto. Il governo non si assunse la responsabilità di una rielaborazione storica, delegando la questione alla società civile che si era appena formata.

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Nonostante ciò, nel contesto di libertà e trasparenza degli anni Novanta, per iniziativa dello Stato vennero eretti decine di monumenti e simboli di memoria nei luoghi delle sepolture di massa delle vittime del Terrore staliniano[4], mentre alcuni etnografi dei musei delle regioni russe introdussero il tema delle repressioni tra le loro esposizioni. L’organizzazione Memorial, nata nel 1989 con lo scopo di custodire la memoria delle repressioni politiche, iniziò a creare un archivio pubblico, realizzando alcuni libri sulla memoria con brevi schede biografiche delle vittime. Prese il via la demolizione dei più odiati monumenti sovietici, città e strade vennero ribattezzate. Si cambiavano i programmi scolastici di storia e letteratura della scuola dell’obbligo e degli atenei[5], apparivano nuovi manuali di storia nei quali sul ruolo di Lenin e di Stalin, nonché sull’intero sistema comunista, si esprimeva un giudizio negativo. I testi riportavano fatti e cifre che testimoniavano il prezzo pagato per la modernizzazione staliniana, si menzionavano le repressioni di massa, la deportazione di popoli interi, la carestia provocata dalla collettivizzazione forzata, il sistema dei GULag.

In seguito alla graduale apertura negli anni Novanta degli archivi segreti furono pubblicate decine di raccolte con documenti, iniziò un lavoro di ricerca sullo studio dei vari aspetti del sistema comunista. Vennero realizzati documentari in più puntate, telefilm e pellicole che mostravano la tragica sorte di alcuni russi durante l’epoca staliniana.

Si può nel complesso affermare che chi terminava gli studi  verso la fine degli anni Novanta in qualche misura si fosse formato un’opinione negativa sul passato staliniano. Tuttavia in quel decennio non si costruì una politica coerente legata alla rielaborazione storica e alla memoria delle repressioni. Gli autori dei manuali, nel riportare fatti e cifre, non fornivano spiegazioni e quindi gli studenti non riuscivano a comprendere a chi si dovesse imputare la responsabilità di quei milioni di morti, né quali fossero i fattori che avevano determinato il crollo dell’Unione Sovietica, ecc.

Si riferiva un numero sterminato di episodi atroci, ma senza costruire una narrazione coerente sul passato. La mancanza poi di punti di vista omogenei nella società e nelle sfere del potere riguardo a questo passato provocavano confusione e un diffuso sconcerto.

Inoltre, nel microcosmo giovanile – tanto nelle grandi metropoli quanto nella provincia russa – non vi erano testimonianze visive delle repressioni. Le targhe commemorative erano pochissime, i monumenti alle vittime delle repressioni venivano eretti soltanto nei luoghi di sepoltura di massa, quindi in periferia o nei boschi. Il tempo cancellò le tracce dei numerosi lager e piccoli lagpunkt[6], le esposizioni nei musei invecchiavano e non esistevano quasi documenti cinematografici o fotografie che restituissero davvero la realtà del GULag. L’immagine del GULag negli anni Novanta si «recuperava» ancora dalla letteratura, ma anche per gli studenti, per non parlare degli scolari, l’«Arcipelago GULag» di Solženicyn era uno scoglio sempre più arduo da superare, per il suo pathos didascalico e la lingua volutamente arcaica. La lingua dei racconti di Šalamov risultò più accessibile, sia per la forma letteraria più contemporanea, sia per la capacità di sintesi di quella tragica esperienza.

 

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Con l’arrivo del nuovo secolo questa situazione densa di contraddizioni iniziò a peggiorare visibilmente. Da una parte il Novecento si dissolveva nel passato, gli ultimi testimoni viventi scomparivano. La nota più importante, tuttavia, fu che gli ideologi del Cremlino, nello sforzo di creare una verticale del potere, si misero a costruire un’immagine del passato in cui il ricordo del Terrore era stato relegato ai margini della coscienza sociale. Il nuovo patriottismo doveva diventare l’ideologia di Stato; un patriottismo che si fondasse sul lato «eroico e luminoso» del passato sovietico. Al contempo si scatenavano «guerre della memoria» con le ex repubbliche sovietiche e si delineava un atteggiamento ostile nei confronti dell’Occidente, nel tentativo di far rinascere l’immagine del «nemico».

Nella creazione di questo nuovo «patriottismo» e nella propaganda di un potere forte dal pugno di ferro la televisione fece la parte da leone; a partire  dal Duemila  Stalin comparve letteralmente ovunque, in particolare negli interminabili serial televisivi, come un leader spietato ma forte, e come l’artefice della vittoria nella Seconda guerra mondiale.

Inoltre, quando all’inizio del terzo millennio internet entrò nella vita dei giovani radicandosi, sui giovani si abbatté un enorme flusso di informazioni non filtrate, strumentali o pro Stalin, o quantomeno infarcite dei miti più assurdi sul passato.

Nel giudizio sul passato e, in primo luogo, sulle repressioni staliniane, hanno sicuramente esercitato una certa influenza anche i tentativi di riscrittura dei manuali scolastici di storia finalizzati alla creazione di un nuovo testo unico nel quale si insiste sugli aspetti «positivi» del passato sovietico; l’eliminazione graduale dai corsi di letteratura e storia di tutto ciò che fosse ritenuto «negativo»; la legittimazione del sistema sovietico e la necessità della rigida modernizzazione e della mobilitazione politica attuate da Stalin. La vittoria nella Seconda guerra mondiale, la cui memoria mitizzata accompagna a ogni passo scolari e studenti, si contrappone al ricordo del GULag e del terrore di massa, e in qualche misura arriva persino a giustificarli. Dell’influsso sui ragazzi ha parlato una studentessa delle scuole superiori che ha partecipato al concorso di storia dell’organizzazione Memorial[7]: Quando ho chiesto ai miei compagni se sapessero di Butovo[8] e delle fucilazioni di massa, ho sentito soltanto una risposta giusta. Perciò ritengo che prima di dire che Stalin era un «manager efficiente» bisognerebbe conoscere la propria storia. Ma dove può apprenderla un semplice studente, se nei manuali di storia questi fatti vengono taciuti e dagli schermi televisivi ho sentito di recente parole terribili sul fatto che Stalin avrebbe reso grande il nostro paese?

 

Ciononostante, il lavoro sulla storia che l’Associazione Memorial ha svolto per anni con gli scolari delle scuole e gli studenti delle università dimostra come i giovani in Russia siano effettivamente interessati al passato, compresa la storia del XX secolo.

Il loro è innanzitutto un interesse per i ricordi famigliari, per le proprie radici. Questo interesse è suscitato dal fatto che la maggior parte delle persone non possiede alcuna informazione oggettiva sul destino della propria famiglia, per il semplice fatto che nella Russia sovietica la memoria famigliare era conservata e tramandata in modo assai lacunoso. Di solito questa memoria in Russia è estremamente superficiale (se paragonata a quella di molti paesi europei “normali”) persino per quanto riguarda gli eventi accaduti nel Ventesimo secolo, per parlare poi dei fatti più remoti. «È un peccato che in Russia la memoria famigliare sia così corta. Riusciamo a risalire fino alle nostre bisnonne, ma più in là non si riesce ad andare»: questa frase è molto frequente nei temi scritti dagli scolari e inviati a Memorial. È perciò comprensibile il tentativo che i giovani fanno di approfondire, completare e ricostruire il proprio passato, cercando di colmare le lacune. Oltre alle cause già descritte, tuttavia, il rinnovato interesse per le proprie radici è stimolato anche da altri fattori.

Il fattore principale è la scomparsa della paura che per alcuni decenni del Ventesimo secolo ha perseguitato chi viveva in Unione Sovietica; la paura di scoprire nel proprio albero genealogico qualcosa che non solo avrebbe sbarrato la strada allo studio e alla carriera, ma che avrebbe potuto procurare sventure molto peggiori. E allora, quando gli studenti di oggi iniziano a cercare le proprie radici, scoprono ciò che per decenni è stato tenuto nascosto: «Dei miei quattro bisnonni, tre sono stati vittime di repressioni: Naum Naumov (fucilato), Ivan Sviridov (mandato in un lager vicino a Vorkuta), Konstantin Panaiotidi (deportato in Siberia)…», ha scritto uno dei partecipanti al nostro concorso.

Questa paura è svanita del tutto solo nei genitori dei giovani attuali e solo durante gli anni della perestrojka.

Molte persone, nel tentativo di salvare le proprie famiglie, hanno cercato di dimenticare e di non raccontare  ciò che era successo ai propri parenti; hanno rinnegato i propri famigliari, di cui già dopo due-tre generazioni nessuno si ricordava più! Ai figli, come a chi avrebbe potuto  «spiattellare» qualcosa, non si raccontava nulla. «Chiudi la bocca, o ci farai ammazzare tutti!»: mia nonna spesso ricordava gli ammonimenti di sua madre. E stava zitta[9].

Quando cominciavano a interessarsi alla propria storia famigliare, molti giovani scoprivano che i loro parenti avevano manipolato certificati di nascita e attestati, modificando il luogo e la data di nascita; o avevano cambiato il cognome per nascondere la propria provenienza sociale oppure non avevano indicato la presenza di parenti vittime di repressioni o residenti  all’estero. E accadeva spesso di trovare la frase: studiando con attenzione la scheda dei dati personali compilata dal mio bisnonno, ho visto che certe cose non corrispondevano…; all’inizio di solito lo studente non capiva e si meravigliava (e ciò era legato ovviamente alla mancanza di conoscenza della storia sovietica) delle ragioni per cui i suoi parenti fossero stati costretti a costruirsi una falsa biografia, a cambiare i nomi, la nazionalità, ad alterare le date, celare alcuni fatti e «dimenticarsi» dei famigliari scomodi. In un secondo tempo, però, ciò induceva spesso i giovani autori a cercare di ricollegare alla realtà storica il passato della propria famiglia, a ricostruire dopo vari decenni segmenti della memoria famigliare che erano stati rimossi.

Fino al 1994 nessuno dei parenti aveva saputo niente del suo destino. Dopo l’arresto Ivan Tarasovič «sparì nel nulla». Solo il 14.09.1994, quando sua nipote Tat’jana Danilovna, visitando l’archivio, fece domanda per riabilitare suo padre, ricevette la pratica del nonno, Ivan Tarasovič, e in questo modo i parenti vennero a conoscenza della sua morte…[10]

Tutto ciò che si è detto fin qui, tuttavia, riguardava soprattutto le famiglie i cui membri sono stati vittime delle repressioni in epoca staliniana. Ma la specificità della storia sovietica sta proprio nel fatto che non solo i membri di uno stesso nucleo famigliare, ma anche una singola persona potesse inizialmente essere ritenuta responsabile e poi diventare una vittima del terrore. Di questi esempi ce ne sono molti. Alcuni collaboratori dell’NKVD[11] finirono con l’essere stritolati dalla macchina del Terrore alla fine degli anni Trenta e in questo modo anche le loro stesse famiglie si trasformarono in famiglie di vittime, soprattutto agli occhi dei loro discendenti. Inoltre, dopo il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (1956) e la denuncia del culto della personalità, molti ex collaboratori dei servizi di sicurezza, una volta licenziati, cambiarono lavoro, occuparono posti tranquilli (in particolare, fra i quadri delle istituzioni russe) e naturalmente evitarono di far cenno a tutto quello che avrebbe potuto comprometterli. È necessario un alto livello di riflessione e di conoscenza storica per giudicare obiettivamente i propri antenati, e per i giovani d’oggi questo è un compito estremamente difficile. Nel descrivere la biografia di un proprio parente, i giovani autori spesso semplicemente non riescono a capire dove lavorasse e di cosa si occupasse quel bisnonno venerando ritratto con le medaglie nelle fotografie degli anni Settanta, scattate in occasione di qualche ricorrenza particolare.

A ogni modo, talvolta senza rendersene persino conto, quando tentano di recuperare i frammenti della memoria famigliare, i giovani lavorano per restituire la persona «alla storia», dimostrando così l’importanza e il valore di ogni vita e destino umani. Solo in questo caso la statistica del Grande Terrore si trasforma effettivamente per loro in una tragedia umana.

Cruciale in tal senso è la nuova figura del testimone storico, che per mancanza di altri ascoltatori, ha cominciato a parlare con chi per la prima volta gli ha posto delle domande: con gli studenti, con chiunque abbia infranto il suo silenzio. La maggior parte dei rappresentanti delle vecchie generazioni in cui possono ancora imbattersi i giovani, infatti, semplicemente non possedeva una lingua adatta per parlare del passato. E non è mai esistita la possibilità di riflettere, visto che ogni riflessione era soffocata dalla paura. L’attenzione assorbita dalla necessità della sopravvivenza non permetteva loro di indagare la propria esperienza. È incredibile come di ciò si rendano conto anche i più giovani, quando si impongono di ascoltare:

«Se l’intera Russia, come diceva Achmatova, si divideva in chi arrestava e chi veniva arrestato, è possibile che esistesse anche una terza Russia che non conosceva tutto questo. Puntando alla sopravvivenza, senza andare a fondo di quanto accadeva, piegando così tanto la testa che era persino difficile scorgerla, questa Russia arava, seminava, consegnava quanto veniva richiesto del frutto del proprio lavoro e viveva con quel poco che le era necessario per sopravvivere. Come l’erba alta essa era impossibile da falciare, da eliminare: era infatti bassa, non si notava. Si poteva solo calpestare… Per comprendere la propria vita all’interno della storia non c’erano le forze, né le possibilità», ha scritto una delle giovani partecipanti al nostro concorso dopo lunghe conversazioni con le vecchiette che vivevano vicino a casa sua. E grazie a questo i nipoti e i pronipoti scopriranno ciò che nella famiglia è stato per anni cancellato dalla memoria. Sapranno di come i loro parenti rientravano fra le «vittime dei decreti», di come venivano mandati nei lager per non aver raggiunto la norma, per essere arrivati in ritardo sul luogo di lavoro (di fatto un lavoro forzato), o accusati di “speculazione”. Scopriranno che la bisnonna nel 1946 era stata condannata a otto anni di detenzione perché aveva portato ai figli affamati una pagnotta e che la sorella del bisnonno, per aver venduto illegalmente della saccarina, aveva ricevuto cinque anni ed era morta in  un lager.

 

Nel tentativo di ricostruire la memoria famigliare un ruolo importante è quello svolto dai documenti di archivio. Da quando il contenuto racchiuso negli archivi di famiglia non suscita più timori, l’interesse verso di essi si è accresciuto. Naturalmente il loro destino in Russia, specialmente nei primi cinquant’anni del Ventesimo secolo, è spesso stato una questione spinosa: da un lato, le persone conservavano letteralmente ogni documento e ogni attestato, visto che la loro presenza era di vitale importanza. Dall’altro, conservare un archivio di famiglia per tutta la prima metà del Ventesimo secolo era estremamente pericoloso: quasi in ogni famiglia c’era qualcosa che poteva essere compromettente per i suoi membri. Per l’uomo sovietico in alcuni periodi era decisamente meglio non avere né archivi né alberi genealogici dettagliati. Lettere, diari, taccuini: tutto poteva diventare un indizio importante di colpevolezza (l’arresto di norma era accompagnato da una perquisizione durante la quale venivano requisiti soprattutto i documenti personali). Per questa ragione nelle fotografie di famiglia venivano ritagliati o coperti i volti dei parenti arrestati e venivano distrutte le foto di chi era stato ritratto in uniformi prerivoluzionarie. E le condizioni stesse della vita sovietica non permettevano affatto la conservazione di carte, fotografie e documenti che venivano immancabilmente perduti durante i trasferimenti, i traslochi, i bombardamenti e le evacuazioni. Custodire almeno una parte dell’archivio di famiglia in condizioni di vita così difficili significava tentare di preservare anche la memoria di famiglia. Sulla base delle centinaia di ricerche effettuate emerge il ruolo essenziale della presenza di almeno un membro in famiglia in grado di raccogliere e conservare i pochi documenti lasciati integri dal Ventesimo secolo. Spesso ne rimangono così pochi che l’unica fotografia intatta di un fucilato durante il Grande Terrore si è conservata solo nel suo fascicolo processuale. I documenti di archivio, la loro lingua asciutta, priva di pathos, ma agghiacciante e «kafkiana», possono avere un’influenza fortissima sulla generazione di futuri avvocati e notai e possono diventare nostri alleati nella lotta per l’apertura degli archivi:

«In questi pochi giorni di lavoro negli archivi mi sono imbattuto in fatti vergognosi e inauditi della storia del nostro paese. Fatti che per lungo tempo sono stati tenuti nascosti, lontano dalla glasnost’. Quanta ingiustizia e crudeltà, e in nome di cosa?! Ora sono semplicemente obbligata ad arrivare fino in fondo…»

Per molti anni, leggendo i lavori inviati a Memorial, parlando e discutendo con i loro giovani autori, ci siamo convinti della loro capacità di guardare a un passato tragico da un lato con interesse, con un’evidente partecipazione e comprensione, e dall’altro, del loro tentativo di proporre un’analisi lucida e obiettiva. Tutto ciò testimonia che, se il passato sovietico non venisse manipolato in modo  strumentale e falsamente nostalgico con idee pseudopatriottiche, potrebbe esistere una speranza (come già era sembrato alla fine del secolo scorso) che le nuove generazioni russe avessero finalmente l’opportunità di compiere un esame lucido, obiettivo e davvero critico del passato.

Wilfried. F Schoeller, Leber oder Schreiben. Der Erzahler Warlam Schalamow, Matthes und Seitz, 2013  Berlin.

 

 

 


[1] Dalla relazione «Scienze sociali in 10 anni di URSS (22 marzo 1928)» dello storico sovietico marxista Michail Pokrovskij.

[2] Si tratta di citazioni prese dalle risposte alle domande rivolte agli studenti degli ultimi anni di scuola superiore attraverso un questionario diffuso da Memorial.

[3] Ibidem.

[4] Nel 1990 nei pressi della Lubjanka a Mosca è stata sistemata una pietra commemorativa portata da uno dei primi campi aperti nell’URSS sull’isola delle Solovki.

[5] Nelle liste dei libri consigliati agli studenti erano incluse le opere di Aleksandr Solženicyn, Varlam Šalamov, Vasilij Grossman dedicate alle repressioni e al GULag.

[6] Agli inizi degli anni Novanta nacque soltanto un complesso memorialistico nel luogo dell’ex lager Perm’ 36.

[7] Dal 1999 l’organizzazione Memorial organizza ogni anno il concorso di storia per gli studenti di scuola superiore «L’uomo nella storia. La Russia  e il XX secolo». Al concorso hanno partecipato in questi anni più di 60.000 studenti di tutte le regioni della Russia.

[8] Butovo è un luogo di sepolture di massa sito alla periferia di Mosca per le vittime fucilate delle repressioni politiche.

[9] Da uno dei temi inviati per il concorso di Memorial.

[10] Ecco un tipico esempio di questa ricostruzione della memoria e del destino.

[11] Il  Commissariato del popolo per gli affari interni, vale a dire la polizia segreta che attuò la politica del Terrore.

 

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