Gli ultimi testimoni. Interviste

Ioanna Murejkene ricorda:
Gridavamo: “Libertà o morte”

Ioanna Ulinauskajte è nata a Kaunas nel 1928. Nel 1940, quando la Lituania è stata unita all’Urss, sono cominciati gli arresti di massa.

Il padre di Ioanna, Kazimiras Ulinauskajtis, è stato anch’egli arrestato e ha scontato la pena nei lager di Vorkuta. In famiglia non si sapeva nulla del suo destino.

Nel 1944, dopo il ritorno dell’esercito sovietico, Ioanna ha sostenuto l’opposizione antisovietica, è stata arrestata e condannata a 10 anni di campi di lavoro correzionale, che ha scontati nella Repubblica dei Komi, a Tajšet e a Noril’sk. Ha partecipato attivamente alla rivolta del campo di Noril’sk. Nell’ottobre del 1956 il caso di Ioanna Ulinauskajte è stato riesaminato; poiché era stata arrestata ancora minorenne, è stata liberata ed tornata in Lituania.

Si è iscritta alla facoltà di medicina specializzandosi in pediatria.

Dal 1959 è sposata, ha cresciuto due figli.

 

L’occupazione sovietica. L’arresto del padre, gennaio 1941
Poi ricordo quando nel ’40 sono entrati i russi, sì, le truppe sovietiche. Abitavamo non lontano dalla strada Kaunas-Vilnius, Kaunas-Marjampole-Vilnius. E per quella strada hanno iniziato a passare camion pieni di soldati, che cantavano. Ma erano tutti molto impolverati. Be’, sa, era stato un lungo viaggio. Alcuni di noi correvano, si congratulavano. Altri piangevano e dicevano che ormai le cose sarebbero andate male. Ma noi bambini eravamo contenti.

E quando sono entrata in casa, avevamo una grande cucina, che era anche sala da pranzo. Ed era tutto sparpagliato per terra, tutte le cose, i libri, mio padre aveva moltissimi libri. Leggeva molto. Tutti i libri, tutta la roba, tutto era sparso per terra. Mia sorella gridava, piangeva, la mamma invece era seduta su una sedia e fissava un punto. Quando sono entrata, ho pensato: “Che cosa è successo?” E mia sorella ha detto: “Hanno preso papà. Hanno arrestato papà”. E così mi sono seduta vicino alla porta.

Così hanno preso papà, e non l’ho più visto fino al ’54. L’hanno processato, noi abbiamo cercato molto, non sapevamo dove fosse. La mamma portava dei pacchi. All’inizio li prendevano, ma poi hanno smesso di accettarli. E non sapevamo più dove fosse. Allora si trovava al Forte IX, e là non accettavano pacchi, niente.

 

L’occupazione tedesca, 1941-1944
Quando sono arrivati i tedeschi, abbiamo iniziato a cercare mio padre in tutte le prigioni. Perché cominciavano già a tornare dal carcere quelli che erano stati in prigione in Lituania o al Forte IX.

E, sa, non lontano da Kaunas, a Petrasiunai, dicevano che avrebbero riesumato i corpi dei fucilati che erano stati in carcere. Là c’è un posto, pare che volessero fare un cimitero, lo avevano recintato, ma poi avevano vietato di fare il cimitero e così li portavano là, in quel bosco.

La mamma dice: “Forse tu sarai più svelta a riconoscerlo”. Ha portato anche me. Sa, gli ebrei scavavano, scavavano, e trascinavano fuori i cadaveri, li adagiavano sul bordo. E tutti noi ci avvicinavamo, be’, ci mettevamo dei fazzoletti intorno alla bocca, ci avvicinavamo e li guardavamo. Li guardavamo uno per uno. E anch’io li ho guardavo uno per uno. Mi facevano una tale impressione. Quelli che trovavano i loro cari si mettevano subito a piangere, sa, quelli che li riconoscevano. E lì c’erano subito delle bare, e li deponevano e li portavano a seppellire. Ma noi non abbiamo trovato il nostro papà.

 

Ingresso delle truppe sovietiche. Partecipazione alla resistenza contro il regime sovietico
Be’, quando è stato oltrepassato il fronte, sa, io forse avevo già quindici anni.

Ed ecco, hanno cominciato a reclutare i nostri uomini, a prenderli nell’esercito, e loro non volevano entrare nell’esercito. Sono andati nei boschi. È stato allora che anche molti nostri conoscenti sono andati nei boschi. Io andavo spesso nel villaggio dov’era nata la mamma. Là, in quel villaggio, viveva suo fratello, e c’erano i miei cugini. Be’ e allora mi è venuto in mente: ecco, vendicherò il papà, lavorerò. E ho iniziato ad aiutare con i volantini. Là nel bosco stampavano dei volantini, e così io andavo nel villaggio, prendevo questi volantini, e poi li distribuivo ai miei amici al ginnasio, poi ai conoscenti. La mamma non sapeva quel che facevo.

E la mamma una volta mi ha sorpreso con quei volantini e con quella medicina. E si è raccomandata. La mamma si è tanto raccomandata, be’, ma io non le ho dato retta. Lei si angosciava molto, pregava: “Vattene di casa. Vai al villaggio. Vai da qualche parte dai parenti”. Ma io sapevo che, se fossi partita, avrebbero arrestato la mamma, allora l’avrebbero presa e portata via. E gli altri figli più piccoli di me, che fine avrebbero fatto? Così non sono andata al villaggio, non sono andata da nessuna parte, e ho aspettato che venissero a prendermi. E allora mi hanno preso quelli del controspionaggio. Era il ’45, sa, c’era il controspionaggio.

 

L’arresto. Il lager sovietico
E gli interrogatori si svolgevano sempre e soltanto di notte, mentre di giorno non ci lasciavano dormire. E non c’era modo di dormire, non davano niente per farsi un giaciglio, niente, niente. Solo sul pavimento di cemento. E quando sono stata arrestata era autunno, un cappotto autunnale, scarpette, non avevo nient’altro. Sì. E faceva così freddo che non potevo addormentarmi. E poi di giorno il sorvegliante non lasciava dormire. Tutto il tempo: “Non dormire. Sta seduta. O in piedi. O seduta”. E appena faceva notte, portavano all’interrogatorio.

Ci hanno processato in quattordici. Il processo è durato tre giorni. Tre giorni. E anche il processo si è svolto sempre di notte.

Ci hanno caricato nei vagoni. In un vagone cinquanta persone, moltissime, si stava molto stretti. Faceva freddo, era febbraio, faceva molto freddo. I vagoni semplicemente si coprivano di brina. E abbiamo viaggiato forse per due settimane. Abbiamo viaggiato per due settimane fino alla Pečora. Avevo una gran sete, perché ci davano da mangiare solo acciughe.

I lavori erano di vario genere. Ci portavano a Sivomaskinskij a scaricare i vagoni. Era un lavoro pesante. Se portavano tavole di legno, bisognava scaricare le tavole, se carbone, era un guaio, il carbone. Portavano un vagone di carbone, e con le pale bisognava scaricarlo vicino alla ferrovia. Diventavamo spaventose, nere, piene di polvere. Era un guaio anche quando portavano il cemento. Sacchi di cemento, e quei sacchi si rompevano, la polvere andava dappertutto, e poi comunque bisognava togliere dal vagone quel cemento. Ne abbiamo respirato tanto di quel cemento, gli occhi si arrossavano, i capelli erano pieni di cemento, tutto, be’, era proprio pesantissimo. Quando mi mettevano un sacco sulle spalle, io cadevo sotto quel sacco. Tutti ridevano: “Forza, forza! Ti abituerai”. E in effetti, a poco a poco mi sono abituata: prima cadevo, poi  camminavo tutta piegata in due. Ma, poi, mi raddrizzaavo e camminavo col sacco in spalla.

Ma le donne lavoravano molto duramente. Era molto duro lavorare alla fabbrica di mattoni. C’era un mattonificio, i mattoni non li portavano, li facevano loro, e tutta Noril’sk è stata costruita con quei mattoni. Anche moltissimi uomini lavoravano al mattonificio. Noi, donne, ci mandarono a lavorare ai forni. Oh, se esiste un inferno, noi ci siamo già state. Io dicevo sempre: “Probabilmente tutti i nostri peccati li abbiamo già scontati là”.

 

La rivolta del lager di Noril’sk, aprile 1953
Aprile 1953. Sono usciti, e gli ucraini hanno cominciato a cantare. Arriva la guardia, un sergente con il fucile, e dice (camminava, stava facendo il giro intorno alla zona), e dice: “Smettetela di cantare”. Ma loro continuavano lo stesso a cantare, non gli davano retta. Così lui ha preso il mitra e li ha falciati tutti. In quelle baracche le pareti erano fatte di due strati di assi, e l’intercapedine era riempita di qualcosa. Sa, quelle baracche erano molto fredde in inverno, così fra le due pareti gettavano delle scorie, che però si assestavano, scendevano. Sui tavolacci erano seduti degli uomini, altri erano seduti a tavola, e hanno ucciso anche questi. Le pallottole sono passate attraverso le assi, e li hanno uccisi. E allora gli uomini, al lavoro, hanno comunicato che facessero suonare le sirene, hanno proclamato lo sciopero. Prima lo sciopero. E noi lavoravamo di notte al cantiere a scavare le fondamenta, e abbiamo sentito che le sirene avevano cominciato a suonare, le sirene delle fabbriche. Allora abbiamo chiesto: “Che cos’è? Che cosa è successo?” Gli uomini hanno cominciato a gridare dalla loro zona: “Donne, lasciate il lavoro! Sciopero!”

Hanno subito chiuso le cucine, hanno sprangato le finestre e le porte con delle tavole. Hanno buttato quello che era già stato cucinato per il pranzo. L’hanno portato fuori, dai calderoni hanno versato tutto per terra. Non cuciniamo più, non mangiamo più. Dichiariamo lo sciopero della fame e non andiamo al lavoro.

I.M. Le richieste erano queste. Togliere dalle finestre quelle sbarre, non chiudere a chiave per la notte, permettere la corrispondenza, dare una giornata libera la domenica, perché lavoravamo senza alcun riposo.

I.O. E i numeri?

I.M. Togliere i numeri. Togliere i numeri, migliorare le condizioni di vita in generale, che non ci maltrattassero, e lavorare otto ore.

Probabilmente erano passate due settimane, vivevamo cosi. Una notte sono arrivati con un camion, e hanno iniziato a trascinare per i piedi quelle che erano sedute intorno al tavolo. Le hanno caricate e portate via. Anche dagli uomini hanno fatto così. E basta. E di nuovo sirene, e di nuovo non uscivamo al lavoro. Ma mangiavamo il cibo del carcere. Quaranta, quattrocento grammi di pane, zuppa, tè, il vitto del carcere.

E a Noril’sk ovunque su quelle gru, su quelle torrette-gru, ovunque erano innalzate bandiere nere. E gli uomini, quando siamo salite sul tetto, abbiamo visto la bandiera della quinta zona degli uomini. Anche da loro era innalzata la bandiera. E basta. Non uscivamo al lavoro. E adesso non era più uno sciopero, adesso era già…

I.O. Una rivolta.

I.M. Una rivolta. Adesso ormai avevamo proclamato la rivolta, non lo sciopero. Perché non pensassero che fosse solo uno sciopero. Uno sciopero, sa, uno sciopero è possibile. E noi chiedevamo solo la morte, libertà o morte! Così. Appena cominciavano a parlare con noi, noi gridavamo soltanto, e tutt’e quattromila dall’alto gridavamo: “Libertà o morte! Libertà o morte!”

Noi gridavamo, loro gridavano, e noi gridavamo ancora più forte. Be’, sa, quattromila donne, se si mettono a gridare… Be’, e abbiamo visto che loro si stavano preparando. E anche noi abbiamo iniziato a prepararci. E allora abbiamo portato via tutte le malate e le vecchie, le abbiamo sistemate in due baracche. E allora abbiamo fatto un cerchio intorno a queste baracche, ci siamo messe così, forse in quattro file, prendendoci per mano. Così, ci siamo prese per mano e siamo rimaste ferme.  In piedi tutta la notte. Loro gridavano, avevano già tagliato tutte le recinzioni, creato dei passaggi. “Uscite. Vi abbiamo creato dei passaggi. Uscite o spariamo.” Ma noi stavamo ferme, gridando: “Libertà o morte!” E, sa che strano fenomeno? Be’, c’erano donne diverse. Russe, e polacche, e c’erano delle tedesche, e ucraine, e lituane, ed estoni, e lettoni. Ma nessuna è uscita.

Loro: “Uscite!” E noi: “Sparate! Sparate!” Sparateci contro. Ed ecco, allora hanno cominciato. Di notte, diciamo verso le quattro, sono arrivate le macchine dei vigili del foco, e hanno iniziato a innaffiarci d’acqua e gettarci addosso della sabbia. Sa, la sabbia finisce negli occhi, e dappertutto. E il getto d’acqua era molto forte, e quando hanno cominciato a colpirci con quell’acqua, hanno spezzato il cerchio. E quando hanno spezzato il cerchio, quei soldati si sono messi a correre e a picchiarci. Sulle mani, sulle braccia e sulla testa. E, a gruppi, i soldati ci hanno portato nella tundra, come gli uomini. Lontano, lontano nella tundra. E camminavamo così, e mi sono ricordata di casa mia, e della mamma, e ho pensato che non sarei più tornata, ho ricordato tutta la mia vita, che era passata così, che era finita. Dunque ci portavano per fucilarci, nella tundra. Be’, e così ci hanno portato, ci hanno portato lontano, lontano, e poi ci hanno circondato. E sa, quel giorno c’era il sole, era così bello, la mattina, il sole. Avevo voglia di vivere, ma che fare. Ci hanno portato e circondato, poi ci hanno riportato indietro, in città.

 

La liberazione, ottobre 1956
Ma poco dopo sono uscita. Allora avevano cominciato a riesaminare i casi. Quando mi avevano arrestata, ero minorenne. E allora hanno cominciato a rilasciare i minorenni.

I.O. Minorenne.

I.M. Minorenne. In quanto minorenne mi hanno processata di nuovo, c’è stato un processo, sono venuti i giudici, là, direttamente nel lager, e mi hanno liberata.

I.O. Quanti anni prima l’hanno liberata?

I.M. Ho scontato esattamente nove anni.

La mamma nel frattempo era cambiata. Tutto sembrava diverso. Per la città la gente camminava allo stesso modo, tutti correvano, passavano le automobili. Ma quando mi sono avvicinata alla mia casa, da cui ero partita, la casa mi è sembrata più piccola. E così il cortile. Anche la mamma era più piccola. La mamma era alta, ma adesso ero più alta io, e la mamma era diventata più piccola. E quando sono caduta ai suoi piedi, la mamma ha detto soltanto: “Andrà tutto bene. Adesso andrà tutto bene. Non piangere. Andrà tutto bene”.

Testi:
Alena Kozlova, Irina Ostrovskaja (Memorial – Mosca)

Operatore:
Viktor Griberman (Riga)

Montaggio:
Sebastian Priess (Memorial – Berlino)
Jorg Sander (Sander Websites – Berlino)

Traduzione: Daniele Castiglioni

 

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Aleksej Gorinov. L’ultima dichiarazione del 29 novembre 2024.

Il 29 novembre 2024 il tribunale militare di Vladimir ha emesso la sentenza del nuovo procedimento penale contro Aleksej Gorinov, consigliere municipale di Mosca, che è stato condannato a tre anni di reclusione in colonia penale di massima sicurezza per “giustificazione del terrorismo”. La condanna va ad aggiungersi ai sette anni già comminati nel 2022 per “fake news sull’esercito”. Foto di copertina: Dar’ja Kornilova. Foto: SOTAvision. BASTA UCCIDERE. FERMIAMO LA GUERRA. Aleksej Gorinov è avvocato e attivista e dal 2017 consigliere municipale presso il distretto Krasnosel’skij di Mosca. Nei primi anni Novanta era deputato per il partito Russia Democratica, ma nel 1993, durante la crisi costituzionale e il duro confronto tra il presidente El’cin e il Soviet supremo, decide di lasciare la politica. Negli ultimi vent’anni Gorinov ha lavorato come avvocato d’impresa e della pubblica amministrazione in ambito civile e ha fornito assistenza legale agli attivisti tratti in arresto durante le manifestazioni politiche. È fra gli ideatori della veglia-memoriale continua, con fiori e fotografie, sul ponte Moskvoreckij, luogo dell’omicidio di Boris Nemcov. Il 15 marzo 2022, durante un’assemblea ordinaria del Consiglio di zona del distretto Krasnosel’skij, Gorinov deplora pubblicamente l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe esortando “la società civile a fare ogni possibile sforzo per fermare la guerra”. Il 26 aprile viene arrestato ex art. 207.3 del Codice penale russo, noto anche come “legge sulle fake news”. Il tribunale del distretto Meščanskij ritiene che ci siano le prove che Gorinov abbia “diffuso informazioni deliberatamente false su quanto compiuto dalle Forze armate russe”, con le aggravanti di essere “in una posizione ufficiale e per motivi d’odio e ostilità”. Gorinov è il primo cittadino russo a ricevere una pena detentiva per essersi espresso contro la guerra. Già in occasione dell’ultima udienza del primo processo Aleksej Gorinov ha avuto modo, come prevede il sistema giudiziario russo, di pronunciare un’“ultima dichiarazione” (poslednee slovo), in altre parole la possibilità di prendere la parola per sostenere la propria innocenza o corroborare la linea difensiva scelta dall’avvocato/a, cui abbiamo avuto modo di dare voce grazie a Paolo Pignocchi e al progetto Proteggi le mie parole. Venerdì scorso, in occasione dell’ultima udienza del secondo processo ai suoi danni, Aleksej Gorinov ha pronunciato una seconda “ultima dichiarazione” che traduciamo in italiano. Sono stato per tutta la vita uno strenuo oppositore di aggressioni, violenza e guerre, e ho consacrato la mia vita esclusivamente ad attività di pace come la scienza, l’insegnamento, la pubblica istruzione e l’attività amministrativa e sociale in veste di deputato, difensore dei diritti umani, membro di commissioni elettorali e osservatore e supervisore del processo elettorale stesso. Mai avrei pensato di vivere abbastanza per constatare un tale livello di degrado del sistema politico del mio Paese e della sua politica estera, un periodo in cui tanti cittadini favorevoli alla pace e contrari alla guerra – in un numero che ormai è di qualche migliaio – vengono accusati di calunnia ai danni delle Forze armate e di giustificazione del terrorismo, e per questo vengono processati. Ci avviamo a concludere il terzo anno di guerra, il terzo anno di vittime e distruzione, di privazioni e sofferenze per milioni di persone cui, in territorio europeo, non si assisteva dai tempi della Seconda guerra mondiale. E non possiamo tacere. Ancora alla fine dello scorso aprile, il nostro ex ministro della difesa ha annunciato che le perdite della parte ucraina nel conflitto armato in corso ammontavano a 500.000 persone. Guardatelo, quel numero, e pensateci! Quali perdite, invece, ha subito la Russia, che secondo le fonti ufficiali avanza con successo costante per tutto il fronte? Continuiamo a non saperlo. E soprattutto, chi ne risponderà, poi? E a che pro succede tutto questo? Il nostro governo e coloro che lo sostengono nelle sue aspirazioni militariste hanno fortemente voluto questa guerra, che ora è arrivata anche nei nostri territori. Una cosa mi verrebbe da chiedere: vi pare che la nostra vita sia migliorata? Sono questi il benessere e la sicurezza che auspicate per il nostro Paese e per la sua gente? Oppure non l’avevate previsto, nei vostri calcoli, un simile sviluppo della situazione? A oggi, però, le risposte a queste domande non si pongono a chi ha deciso questa guerra e continua a uccidere, a chi ne fa propaganda e assume mercenari per combatterla, ma a noi, cittadini comuni della Russia che alziamo la voce contro la guerra e per la pace. Una risposta che paghiamo con la nostra libertà se non, alcuni, con la vita. Appartengo alla generazione ormai uscente di persone con genitori che hanno partecipato alla Seconda guerra mondiale e, alcuni, le sono sopravvissuti con tutte le difficoltà del caso. La loro generazione, ormai passata, ci ha lasciato in eredità il compito di preservare la pace a ogni costo, come quanto di più prezioso abbiamo noi che abitiamo su questa Terra. Noi, invece, abbiamo snobbato le loro richieste e abbiamo spregiato la memoria di quelle persone e delle vittime della guerra suddetta. La mia colpa, in quanto cittadino del mio Paese, è di avere permesso questa guerra e di non essere riuscito a fermarla. Vi chiedo di prenderne atto, nel verdetto. Tuttavia, vorrei che la mia colpa e la mia responsabilità fossero condivise anche da chi questa guerra l’ha iniziata, vi ha partecipato e la sostiene, e da chi perseguita coloro che si battono per la pace. Continuo a vivere con la speranza che un giorno questo avverrà. Nel frattempo, chiedo perdono al popolo ucraino e ai miei concittadini che per questa guerra hanno sofferto. Nel processo in cui sono stato accusato e giudicato per avere detto espressamente che era necessario porre fine alla guerra, ho già dato piena voce alle mie considerazioni su questa vile impresa umana. Posso solo aggiungere che la violenza, l’aggressione generano solo altra violenza di ritorno, e nulla più. Questa è la vera causa delle nostre disgrazie, delle nostre sofferenze, di perdite senza senso di vite umane, della distruzione di infrastrutture civili e industriali, di case e abitazioni. Fermiamo questo massacro cruento che non serve né

Leggi

Roma, 5 dicembre 2024. Memorial Italia a Più libri più liberi.

Memorial Italia partecipa a Roma all’edizione 2024 di Più libri più liberi con la presentazione di Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società, opposizione, ultimo volume della collana curata per Viella Editrice. Il regime putiniano e il nazionalismo russo: giovedì 5 dicembre alle 18:00 presso la Nuvola, Roma EUR, in sala Elettra, saranno presentati i volumi, pubblicati da Viella Editrice, Il nazionalismo russo. Spazio postsovietico e guerra all’Ucraina, a cura di Andrea Graziosi e Francesca Lomastro, e Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società e opposizione, a cura dei nostri Riccardo Mario Cucciolla e Niccolò Pianciola. Intervengono Riccardo Mario Cucciolla, Francesca Gori, Andrea Graziosi, Andrea Romano. Coordina Carolina De Stefano. Il volume Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società e opposizione esplora l’evoluzione della società e del potere in Russia dopo l’aggressione all’Ucraina e offre un’analisi della complessa interazione tra apparati dello stato, opposizione e società civile. I saggi analizzano la deriva totalitaria del regime putiniano studiandone le istituzioni e la relazione tra stato e società, evidenziando come tendenze demografiche, rifugiati ucraini, politiche nataliste e migratorie abbiano ridefinito gli equilibri sociali del paese. Inoltre, pongono l’attenzione sulla società civile russa e sulle sfide che oppositori, artisti, accademici, minoranze e difensori dei diritti umani affrontano sia in un contesto sempre più repressivo in patria, sia nell’emigrazione. I saggi compresi nel volume sono di Sergej Abašin, Alexander Baunov, Simone A. Bellezza, Alain Blum, Bill Bowring, Riccardo Mario Cucciolla, Marcello Flores, Vladimir Gel’man, Lev Gudkov, Andrea Gullotta, Andrej Jakovlev, Irina Kuznetsova, Alberto Masoero, Niccolò Pianciola, Giovanni Savino, Irina Ščerbakova, Sergej Zacharov.

Leggi

Bari, 26 novembre 2024. Proiezione del film documentario “The Dmitriev Affair”.

Martedì 26 novembre alle 20:30, presso il Multisala Cinema Galleria di Bari, Andrea Gullotta, vicepresidente di Memorial Italia, presenta il film documentario The Dmitriev Affair, scritto e diretto dalla regista olandese Jessica Gorter e sottotitolato in italiano. Jurij Dmitriev è uno storico e attivista, direttore di Memorial Petrozavodsk. Negli anni Novanta scopre un’enorme fossa comune in cui sono sepolte migliaia di vittime del Grande Terrore. Nella radura boschiva di Sandormoch, in Carelia, inaugura un cimitero commemorativo e riesce a raccogliere persone di varie nazionalità intorno a un passato complesso e conflittuale. Da sempre schierato contro il governo della Federazione Russa, nel 2014 Dmitriev condanna apertamente l’invasione della Crimea. Da allora inizia per lui un calvario giudiziario che lo porta a essere condannato a tredici anni e mezzo di reclusione. Il documentario di Jessica Gorter, realizzato nel 2023, racconta con passione e precisione la sua tragica vicenda. Gabriele Nissim, ha letto per Memorial Italia l’ultima dichiarazione di Jurij Dmitriev, pronunciata l’8 luglio 2020, come parte del progetto 30 ottobre. Proteggi le mie parole. Irina Flige, storica collaboratrice di Memorial San Pietroburgo, ha raccontato la storia della radura di Sandormoch nel volume Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria, pubblicato da Stilo Editrice e curato da Andrea Gullotta e Giulia De Florio. La proiezione è a ingresso libero ed è uno degli incontri previsti dall’undicesima edizione del festival letterario Pagine di Russia, organizzato dalla casa editrice barese Stilo in collaborazione con la cattedra di russo dell’Università degli Studi di Bari. Quest’anno il festival è inserito nella programmazione del progetto Prin 2022 PNRR (LOST) Literature of Socialist Trauma: Mapping and Researching the Lost Page of European Literature ed è dedicato al concetto di trauma nella cornice della letteratura russa del Novecento sorta dalle repressioni sovietiche.

Leggi