Nel dolore bisogna imparare a sopravvivere!
L’autrice dell’articolo, Tat’jana Nikol’skaja, è nata all’ALŽIR, il «lager di Akmola per le mogli dei traditori della Patria». Qui in diversi anni sono passate più di ventimila donne. Ora che l’Urss non esiste più, attraverso i destini di persone come l’autrice si può osservare la tragedia del passato e contemporaneamente il legame con il presente: il ventennale dalla fondazione della società kazacha «ADILET», che custodisce la memoria degli eventi di quegli anni.
Conosco il sapore del dolore, ho imparato a provare compassione per il prossimo, a comprendere la pena altrui. Nel dolore presente e futuro bisogna imparare a sopravvivere.
Molti anni fa mi venne in mente un’idea: andare a inchinarmi a quella terra che mi ha dato la vita. Negli anni non mi aveva abbandonato la speranza di trovare la tomba di mio padre, Ivan Pavlovič Plužnikov (condannato negli anni bui per tre volte a 10 anni di lager) e del mio gemello Vjačeslav, morto all’età di nove mesi. Essi hanno trovato il loro ultimo rifugio a Dolinka, nel lontano Kazachstan.
Ed ecco che il 25 luglio 2008 salii sul treno Mosca-Astana. Due giorni e mezzo dopo nella bellissima città di Astana mi accolse il presidente dell’associazione delle vittime delle repressioni illegali della città di Astana e della regione di Akmolinsk, Vladimir Michajlovič Grinev. (…)
35 chilometri separano la capitale del Kazachstan dall’ALŽIR, il «lager di Akmola per le mogli dei traditori della Patria», per il quale in diversi anni sono passate ventimila donne. Aqmol (nome attuale del villaggio di Malinovka) si avvicina sempre di più alla capitale, che allarga i suoi confini. Qui si trova il memoriale «Arco della pietà», alto 18 metri, bisogna passarlo chinando bassa la testa in segno di rispetto. È una donna-madre che piange i suoi figli morti negli anni delle repressioni. (…)
A Karaganda, dove giunsi da Astana, avevo un appuntamento con il corrispondente del giornale «Karaganda industriale», Ekaterina Borisovna Kuznecova. Erano passati letteralmente pochi minuti da quando avevo messo piede sui gradini della stazione dei pullman di Karaganda, e vidi venirmi incontro una donna magrolina in calzoni bianchi e berrettino, come se il cuore le avesse suggerito che proprio io la stavo aspettando.
Ekaterina Borisovna è una persona straordinaria, fin dall’inizio del periodo delle riabilitazioni nel paese ha aiutato molte persone, comprese naturalmente quelle che sono rimaste a vivere a Karaganda dopo la liberazione.
Dopo un breve viaggio in cui mi parlò degli aspetti più notevoli della città, Ekaterina Borisovna mi portò alla Direzione del comitato di statistica giuridica della regione di Karaganda (Archivio della Procura generale del Kazachstan). Lasciai una richiesta di fornirmi maggiori informazioni su mio padre, e soprattutto almeno una sua fotografia. Arrivata a Mosca ricevetti la risposta a tutte le domande, tranne la fotografia, che nel fascicolo non c’era.
Riposai nel bellissimo albergo dove, fra parentesi, potei avere una stanza anche senza documento (per il nervosismo avevo dimenticato di prenderlo con me).
Ed ecco giunse il giorno più difficile, che sognavo da tempo: la visita del paesino di Dolinka, che si trova a un’ora e mezzo di viaggio da Karaganda.
Un paesino bellissimo, straordinariamente verde (tutti gli alberi sono stati piantati dai nostri padri e dalle nostre madri), di 5 000 abitanti, che nel 2009 celebra il suo centenario. Qui si trovava la sezione più grande del Karlag, la n. 26, dove scontavano la pena i miei genitori e dove sono nata io.
Nel museo delle vittime delle repressioni politiche ci aspettava il tè, e la giovane direttrice era pronta a mostrarmi la loro piccola esposizione.
Più di tutto mi colpì la «Carta del territorio del Karlag dell’NKVD», creata nel 1938 dal laboratorio agrochimico di Dolinka e il cui disegno ricorda l’Africa. Una delle pareti del museo è interamente occupata dagli schedari di quelli che hanno scontato qui la pena. Il libro dei commenti del museo testimonia del fatto che non sono stata l’unica ad avere l’idea di visitarlo; nel libro hanno lasciato la loro firma studiosi, sacerdoti e molti altri.
«Che il Signore Vi protegga e Vi dia forza!» – così ho scritto nel libro dei commenti.
Poi il viaggio è proseguito nella profondità di Dolinka, al «Cimitero delle mamme». Un enorme territorio disseminato di paletti metallici: segno delle tombe dei bambini che non hanno sopportato le condizioni del lager. Fui presa da un folle, forsennato desiderio di trovare almeno una traccia del mio fratellino Vjačeslav. Ma qui solo due paletti fra tanti riportano notizie sui sepolti: Gonenko Vjačeslav, nato nel febbraio 1938 e morto nel febbraio 1939, e Maksjutov Viten’ka, gennaio 1930 – marzo 1930. «Ai cristiani ortodossi vittime delle repressioni antireligiose del 1938-1957. Eterna memoria ai fratelli e alle sorelle»: una scritta su un monumento e una grande croce, da parte della Chiesa ortodossa. Vicino, una lapide della Chiesa cattolica.
I miei accompagnatori mi lasciarono, mi diedero la possibilità di restare in solitudine su quella terra che avevo desiderato vedere per lunghi, lunghi anni. Quando chiesi dove si trovava il cimitero degli adulti, il direttore del museo rispose: qui dove sta ora, in qualsiasi punto può scavare e imbattersi in cadaveri. Sì, è come nella terra di «Butovo» o della «Kommunarka», le ex zone di fucilazione nei pressi di Mosca. (…)
In conclusione voglio esprimere
– gratitudine al Presidente del Kazachstan Nazarbaev per la memoria delle vittime innocenti e per il sostegno agli ex repressi sopravvissuti fino a oggi;
– la speranza che il Presidente della Russia ricordi i suoi impegni come garante della Costituzione e decida la questione del risarcimento dei danni materiali e morali arrecati ai cittadini della Russia in quegli anni terribili.
Tat’jana Nikol’skaja
(da 30 oktjabrja n. 92, 2009)