V.Shapovalova
Le memorie femminili del lager: il lager come modo di vivere
V. Šapovalova
Le memorie femminili del lager: il lager come modo di vivere
La letteratura carceraria e di lager sovietica è notevole per dimensioni: romanzi, saggi, poesie, memorie, lettere[1]. È difficile non notare, tuttavia, che gli autori delle opere letterarie (di carattere non memorialistico) sui lager sono prevalentemente uomini.[2] Di regola, seguono i canoni letterari del XVII-XX secolo, per i quale il carcere offriva al creatore/poeta/artista sia l’isolamento dall’agitazione vana del mondo, sia la sofferenza «necessaria alla creazione» e dava in tal modo la libertà suprema. Il detenuto si presentava come un moderno Prometeo- eroe romantico e combattente contro la tirannia della società[3]. L’esempio più evidente di questo canone è il romanzo di A. Solženicyn «Il primo cerchio».
Per quel che riguarda la memorialistica, è sempre stata e rimane indissolubilmente legata alla letteratura. I memorialisti si orientano sempre (consciamente o inconsciamente) verso modelli e esempi letterari.[4] Se nella loro creazione letteraria gli autori uomini ammettono di rado le loro debolezze, il bisogno di sostegno morale e fisico, una certa dipendenza di vita da un simile sostegno, il ricercatore troverà facilmente tutte queste particolarità anche nelle memorie maschili dei lager. I memorialisti uomini in maggior misura rispetto alle donne si orientano verso avvenimenti globali e legano la valutazione della propria vita a grandi cataclismi politici.[5]
A differenza dalla letteratura e memorialistica «maschile», nei ricordi «femminili»sull’esperienza del carcere e del lager non ci sono canoni fissati chiaramente e stabilmente. Non solo, tradizionalmente sia nella letteratura russa, sia in quella femminile europea occidentale ben nota al lettore russo l’immagine e le metafore del carcere sono saldamente legate alla casa e alla cerchia domestica[6], si associano ad esse (per esempio in Charlotte e Emily Bronte, Elena Gan, Karolina avlova). Nella letteratura russa si può scoprire la metafora della società mondana come un’invariante della «casa-prigione». In parte lo si può spiegare col fatto che anche una libertà relativa era inaccessibile alla stragrande maggioranza delle donne sia fuori, sia dentro il carcere (in virtù di limitazioni sociali e fisiche). Perciò la letteratura femminile carceraria e di lager nella maggioranza dei casi ha un carattere di confessione: memorie, lettere, racconti e romanzai autobiografici. Questa letteratura non era creata per la pubblicazione, e in tal modo ha una sfumatura piuttosto intima. Proprio in questo consiste il valore e l’unicità di questo tipo di fonte storico-letteraria.
Il tema della situazione e dei diritti/mancanza di diritti delle donne nei lager sovietici praticamente non è stato studiato.[7] L’idea stessa della pubblicazione dell’una o dell’altra memoria femminile, sia in Occidente, sia in Russia, sorgeva di solito o in diretto legame con l’importanza sociale della personalità dell’autore (tale è «Indimenticabile» di Anna Larina-Bucharina) o per il livello letterario indiscutibilmente alto del testo («Viaggio nella vertigine» di Evgenija Ginzburg).[8] Il tema è di per sé vasto e in questo lavoro mi soffermerò solo sugli aspetti «squisitamente femminili» del tema enunciato – il tema della maternità, della sessualità, della violenza e della solidarietà. Baso la mia analisi sulle memorie femminili, le lettere, le interviste a detenuti registrate e redatte in diverse epoche, cioè sui documenti di origine personale, che dipingono più chiaramente questi aspetti della vita del lager. Di più di un centinaio di testi memorialistici per questo lavoro ho scelto quelle che presentavano l’esperienza femminile e la visione del mondo di diversi strati della società. Per me era importante anche utilizzare prima di tutto quei testi che abbracciavano un periodo per quanto possibile ampio (o perfino tutto) dell’esistenza del GULAG. Come documenti storici le memorie delle donne – per lo sguardo maschile dello storico – hanno molti difetti fattografici: vi sono presenti chiare deformazioni, sono «puramente» e troppo soggettivi e valutativi. Tuttavia per lo specialista di storia femminile (femminologia storica) proprio la percezione soggettiva, l’interpretazione personale degli avvenimenti storici, e spesso perfino il passare sotto silenzio gli uni o gli altri fatti o avvenimenti ben noti rende queste fonti particolarmente interessanti sia per «gli esumatori del passato», sia per i sociologi, come per i critici letterari. In tutte le memorie e lettere femminili si osservano esattamente la posizione dell’autore, l’autopercezione dell’autore e la percezione che l’autore ha del suo «pubblico».
Non bisogna dimenticare che le memorie non sono solo opere letterarie, ma anche deposizioni di testimoni. Alla liberazione dal lager tutti i detenuti firmavano un impegno a «non pubblicizzare» quanto avevano vissuto, per la cui violazione potevano essere condannati fino a tre anni di detenzione.[9] In altre parole, il fatto stesso dell’esistenza di memorie, lettere, racconti testimonia che molti consideravano la firma una richiesta puramente formale, anche se talvolta le memorie sui lager erano scritte sotto pseudonimo.[10] «Noi viviamo in un carcere da cui non si può sfuggire e soprattutto opprime la monotoni schiettamente carceraria e la disperazione della vita quotidiana», scriveva già nel 1922 a Pietrogrado, in «libertà», una delle memorialiste. Le sue parole sono la migliore conferma del fenomeno più volte osservato della società sovietica: la vita «in libertà» e la vita nel lager erano simili. Nella storia del GULAG e nella sua «storia femminile» in particolare si possono scoprire in forma concentrata e semplificata tutte le forze e i legami della società sovietica nels uo complesso. Non a caso nei lunghi anni di esistenza del GULAG sono sorti i termini: «piccola zona» (il lager) e «grande zona» (tutto il paese).[11]
La vita nel lager o in carcere era vita in condizioni estreme ed era accompagnata da un trauma psicologico. Spesso il ricordo del trauma (e tanto più il trascrivere gli eventi ad esso legati) significava rivivere una seconda volta quel trauma, il che non di rado diventava un ostacolo insuperabile per il memorialista emotivo. In particolare se si trattava di una donna. Nello stesso tempo, annotare gli avvenimenti legati a traumi fisici e psicologici in molti casi portava ad acquistare la serenità interiore e l’equilibrio emotivo.[12] Qui, probabilmente, bisogna cercare anche le basi occulte dell’aspirazione inconscia a comunicare – raccontare o scrivere – sugli avvenimenti che hanno lasciato una così pesante traccia nella memoria.[13]
Dunque chi risultò pronto, volle e alla fine scrisse quel che aveva vissuto?
Molto convenzionalmente gli autori di memorie e diari si possono dividere in alcuni gruppi. Il primo gruppo di autori sono donne per le quali il lavoro letterario è parte integrante della loro vita.
Per esempio, O.V. Jaga-Sinakevič (1875-1959), autrice di ricordi sul lager delle Solovki, era diplomata al ginnasio della Stojunina e ai Corsi superiori di Lesgaft a Pietroburgo, insegnante di matematica, lavori manuali e disegno all’Istituto commerciale di Vyborg e a Pietroburgo/Pietrogrado. Fu arrestata nel 1929 per il caso del circolo religioso-filosofico «Risurrezione», capeggiato dal professor A.A. Mejer (1874-1939).. Jafa-Sinakevič fu condannata a tre anni di lavori correzionali e scontò la pena nel lager delle Solovki. Seguendo la tradizione famigliare (il bisnonno della Jafa-Sinakevič I.A. Vtorov conosceva bene A.S. Puškin e V.N. Žukovskij e lasciò delle memorie su di loro, il nonno N.I. Vtorov era un celebre etnografo e archeologo), fin dall’infanzia e fino alla fine della sua vita la memorialista tenne un diario. Jafa-Sinakevič intitolò le sue memoria sul lager delle Solovki «Le isole di Avgurov». Il tema del lager è da lei trattato filosoficamente, come uno dei lati dell’esistenza: «Come si sono confusi e intrecciati qui tutti i secoli e le epoche. Questo satiro mitologico con un mazzo di chiavi alla cintura spadroneggia sul carcere d’isolamento del lager, sistemato nell’antica cella del santo Elizar, che serviva principalmente a far passare la sbornia a ladri e prostitute ubriachi. Le ninfe sono cacciate qui a forza dalla Ligovka, dalla Sucharevka, dai vicoli Čubarov delle città russe contemporanee… e tuttavia adesso sono inseparabili da questo paesaggio idillicamente primitivo, da questa natura selvaggia e grandiosa».
Il destino di Ju.N. Danzas (1879-1942), autrice dei lavori filosofici «Le esigenze del pensiero» (1906), «Alla ricerca della Divinità» (1913), dama di compagnia dell’imperatrice Aleksandra Fedorovna (1879-1942), bibliotecaria della Biblioteca pubblica, una delle fondatrici della comunità cattolica di rito orientale del Santo Spirito a Pietrogrado (1921), cambiò bruscamente nel novembre del 1923, quando fu arrestata a Pietrogrado e condannata a dieci anni di carcere. Scontata la pena nel carcere di Irkutsk, nel lager delle Solovki (1928-1931) e alla stazione di Medvež’ja gora (1931-1932), subito dopo la liberazione emigrò in Germania, poi si trasferì in Francia, dove nel 1935 pubblicò le memorie sulla sua reclusione «Bagne Rouge.»[14]. La Danzas descrive dettagliatamente le condizioni di detenzione nel carcere di Irkutsk, le prigiorni di transito, e il lager delle Solovki. Come memorialista si vede come testimone importantissimo: «Io sono stata una detenuta politica nelle carceri sovietiche per otto anni. La mia esperienza personale mi consente di parlare sia di quelle carceri, sia del regime sotto il quale soffrono centinaia di milioni di persone, la cui innocenza è fuori di dubbio perfino dal punto di vista del tribunale rivoluzionario.»[15]
Un’altra eroina di questa ricerca, i cui ricordi possono essere attribuiti al primo gruppo, A.P. Skripnikova (1896-1974), diplomata al ginnasio femminile di Majkop e laureata alla facoltà di storia e filosofia dei Corsi femminili superiori a Mosca, insegnante di psicologia e filosofia all’istituto di istruzione pubblica di Majkop (1818-1921), ricercatrice all’Istituto di psiconeurologia di Mosca (1922-1927). Nel 1920 fu arrestata la prima volta per un discorso in difesa della cultura, pronunciato in un comizio cittadino e perfino condannata alla fucilazione per questo, ma grazie all’intervento degli intellettuali locali, fu tuttavia liberata. Nel 1927 la Skripnikova fu arrestata per la seconda volta per la «leva di Vojkov» e condannata a cinque anni; scontata la pena alle Solovki (1927-1931) e alla stanza di Medvež’ja gora (1931-1932), la Skripnikova fu arrestata per la terza volta nel 1952 per aver «criticato l’impreparazione dell’URSS alla guerra» e condannata a dieci anni. Scontò la pena in lager della Siberia (Siblag, Suslovo) e della repubblica dei Mordvini (Dobrovlag, Pot’ma), e dal 1958 nel carcere di Vladimir. Dopo la liberazione nel giugno 1959 visse a Ordžonikidze, dove lavorò come ricercatrice all’Istituto pedagogico. Dedicò tutta la sua vita alla lotta per i diritti dell’uomo, facendo una dettagliata descrizione del suo secondo arresto e della permanenza nel lager nel romanzo autobiografico «Solovki». Il tema principale del romanzo è il rifiuto della visione del mondo socialista: «Anna ricordò le donne che morivano di fame e di tifo alla ČK di Krasnodar… soprattutto quella sifilitica senza naso che moriva di fame, e in braccio teneva lo scheletrino di un neonato avvolto di pelle, che anche lui moriva di fame… Era facile per Černyševskij stare in carcere e scrivere «Che fare?» – un socialismo carino, simpatico, sazio e accogliente! Ma qui c’è il socialismo vero, russo …
La giornalista E.I. Jaroslavskaja.Markon (1902-1931), figlia del famoso storico medievalista I.Ju. Markon (1875-1949), fu arrestata diverse volte. Nel 1923 Jaroslavskaja-Markon si laureò in filosofia all’Università di Pietrogrado. Insieme al marito, il poeta biocosmista A.B. Jaroslavskij (1891-1930), viaggiò molto per il paese tenendo conferenze, lezioni antireligiose e dispute (e questo dopo che, in seguito a un incidente di macchina, le era stato amputato un piede e doveva camminare con delle protesi).Nel 1926-1928 la Jaroslavskaja.Marko e suo marito vissero a Berlino e a Parigi, tennero conferenze sulla Russia Sovietica. A Berlino Jaroslavskaja collaborava con il giornale «Rul’», dove pubblicò un ciclo di saggi sulla vita delle città russe di provincia «Per città e villaggi». Subito dopo il ritorno in Russia Jaroslavskij fu arrestato e condannato a cinque anni di detenzione. Sa moglie, essendo categoricamente ostile all’ideologia sovietica, preferì in quelle circostanze una vita semivagabonda, guadagni casuali con la vendita di giornali e furti, piuttosto che lavorare per il potere sovietico. Fu arrestata diverse volte per furto e in seguito a uno degli arresti fu condannata a tre anni di confino in Siberia. Dal confino la Jaroslavskaja-Markov fuggì a Kem’ per preparare l’evasione di suo marito dal lager delle Solovki. Lì, a Kem’, nel luglio del 1930 fu arrestata e condannata a tre anni. Nel dicembre del 1930, saputo della fucilazione del marito, gettò un sasso contro il direttore del lager D.V. Uspenskij, cercando di prenderlo alla tempia. Per tentativo di compiere un «atto terroristico» la Jaroslavskaja-Markon fu condannata alla fucilazione. Scrisse la sua autobiografia in cella di rigore sulle isole delle Lepri, in attesa della condanna. «Avverto ancora che scrivo questa autobiografia non per voi, organi inquirenti (se servisse solo per voi, non la scriverei!…) – semplicemente ho voglia di mettere la mia vita sulla carta, e la carta, tranne all’ISO, non posso trovarla da nessuna parte… Scrivo per me. Scrivere deformando la realtà non mi interessa. Inoltre non ho nulla da perdere. Ecco perché sono sincera. Se adesso espongo tutto questo così sinceramente, è perché aspetto comunque la fucilazione o una lunga detenzione…»
Un destino simile attendeva anche E.B. Pol’skaja, autrice delle memorie «Noi, Signore, innanzi a Te…» Durante la Guerra patriottica si ritrovò in Germania; insieme al marito, il giornalista L. Pol’skij, lavorava al giornale cosacco «Kazač’ja lava», pubblicato a Potsdam. Nel 1945 fu rimpatriata, arrestata e condannata a dieci anni, che scontò nei lager di Kemerovo.
Per tutte queste donna – Jafa-Sinakevič, Jaroslavskaja-Markon, Danzas, Skripnikova, Pol’skaja e molte altre la creazione letteraria era in maggiore o minore misura legata alla loro professione o orientamento di vita. Esse utilizzarono la loro esperienza del lager come materiale per letteratura autobiografica. Bisogna notare che nutrivano tutte sentimenti antisovietici – dal rifiuto filosofico-poetico del socialismo della Jafa-Sinakevič fino all’aperta protesta della Jaroslavskaja.Markon.
Il secondo gruppo di autori è costituito da memorialisti che non erano legati professionalmente alla letteratura, ma presero in mano la penna in virtù della loro educazione e del loro desiderio di essere testimoni. A sua volta le si può dividere in due categoria: la prima sono donne che sentono un’interiore opposizione spirituale al Potere sovietico. Fra esse innanzitutto R.Z. Vetuchnovskaja (1904-1993), autrice delle memorie «Tradotta in tempo di guerra», che entrò nel partito social democratico all’inizio degli anni ’20 e partecipò a un circolo politico giovanile, in cui si leggeva e commentava il «Manifesto comunista» di Marx. In quegli anni l’interpretazione autonoma di quel classico non veniva incoraggiata: nel 1924 fu arrestata e condannata a tre anni di lager e due anni di confino. Scontata la pena alle Solovki e al carcere politico di Verchne-Ural’sk, fu di nuovo arrestata nel giugno del 1941 e scontò la nuova condanna a Ust’-Kamenogorsk e a Džezkazgan.
Allo stesso gruppo di memorie di membri di organizzazioni giovanili marxiste illegali possono essere riferiti i testi delle memorie di quelle detenute che avevano partecipato a simili gruppi, sorti negli anni del dopoguerra, e anche alla fine degli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. Fra essi i ricordi di Maja Ulanovskaja «Storia di una famiglia» e Alla Tumanova «Un passo a destra, un passo a sinistra». Maja Ulanovskaja e Alle Rejf (Tumanova), arrestate nel 1951 per il caso dell’organizzazione terroristica giovanile Ebraica (gruppo Unione di lotta per la causa della rivoluzione), furono condannate a venticinque anni di lager e cinque anni di confino. Entrambe furono liberate solo nell’aprile del 1956.
La giovane generazione di detenute è rappresentata dall’attiva partecipante del fondo di aiuto ai detenuti politici Irina Curkova (1959- ), autrice delle memorie «Prospettiva» e del saggio «Carcerologia». Era studentessa della sezione serale dell’Istituto tessile di Leningrado, quando nel 1982 l’arrestarono per aver partecipato alla pubblicazione della rivista di samizdat «Perspektiva». Già nel 1978 per rifiuto di rendere deposizioni sul caso di suo marito, Arkadij Curkov, Irina era stata condannata a tre mesi di lavoro coatto nel luogo di residenza, ma nel marzo 1982 con una sentenza del tribunale cittadino di Leningrado fu condannata ormai a tre anni di «campo di lavoro correzionale» per non aver denunciato un delitto. La Curkova scontò la sua pena nei lager della stazione di Bozoj (1983-1984) e nella stazione di Pliškino nella regione di Irkutsk (1984-1985).
Al secondo gruppo di autrici non professioniste di ricordi e memorie si possono ascrivere tutti i «membri di famiglie di traditori della Patria» (ČSIR), e anche i membri del partito comunista e i funzionari dell’apparato amministrativo sovietico. Forse le più famose memorie «femminili» di questo genere sono i ricordi di A. Larina, moglie di N.I. Bucharin, da lei intitolate «Indimenticabile» (1914). Nel 1937 fu arrestata e condannata a otto anni di lavori correzionali, ma tornò a Mosca solo nel 1958, dopo la sua piena riabilitazione.
Allo stesso gruppo di ricordi possono essere riferiti i testi di
– E.E. Sidorkina (1903-?), autrice delle note «Anni sotto scorta», che era iscritta al partito bolscevico, laureata dell’Università comunista dei lavoratori d’Oriente a Mosca. Fino all’arresto nel 1937 lavorò come redattore del giornale repubblicano «Marij kommuna». La sua esperienza dei lager durò dieci anni.
– K.D. Medvedskaja (n. 1910, autrice delle memorie «La vita è ovunque», che fu arrestata nel 1937 come moglie di un «traditore della Patria» e riabilitata solo nel 1957).
– L.I. Granovskaja (n. 1916, autrice delle memorie «Appunti di Aelita», arrestata nel 1937 come moglie del «traditore della Patria» Ju.D. Los’-Losev, pilota e insegnante di scuola di volo, membro del partito dal 1918. Prima dell’arresto L.I. Granovskaja era stata studentessa della facoltà di geologia dell’Università statale di Leningrado. Dopo cinque anni nei lager della repubblica dei Mordvini visse a Sverdlovsk, Petrozavodsk e tornò a Leningrado solo dopo il XX congresso, nel 1961.
– Ja.I. Verženskaja (1902-1993), autrice delle memorie «Episodi della mia vita», anche lei arrestata nel 1938 a Mosca come moglie di un «traditore della Patria», l’ingegnere militare, generale di brigata, comandante di «brigata ferroviaria» A.I. Verženskij. Fu condannata a otto anni di detenzione. Scontata la pena al Karlag (lager di Akmola per le mogli dei traditori della Patria), a Solikamsk, al Kraslag (stazione Rešety), nel 1957 fu riabilitata e si trasferì a Petrodvorec, nella regione di Leningrado.
Che cos’hanno in comune le autrici di memorie elencate di questo secondo gruppo? Le mogli dei «traditori della Patria» (così come i comunisti) prima dell’arresto non erano in opposizione al Potere sovietico. Evgenija Ginzburg, collaboratrice del giornale «Krasnaja Tatarija», nel 1937 fu espulsa dal partito comunista, arrestata lo stesso anno e condannata a dieci anni di detenzione in rigido isolamento, già sapendo delle torture dei detenuti nel carcere di Butyrki, scrisse: «E anche oggi, dopo tutto quello che ci è successo, voteremmo forse per qualche altro sistema, tranne quello sovietico, con cui siamo cresciuti, come con il nostro stesso cuore, che per noi è naturale come il respiro.»
Le memorie delle mogli dei «traditori della Patria» erano spesso suscitate dal desiderio di autogiustificarsi e dimostrare la propria innocenza dinanzi alla società. Nel caso specifico svolgevano un ruolo fondamentale gli stereotipi sociali e l’autopercezione delle memorialiste. È assolutaemnte evidente che tutte quelle da me menzionate – sia le avversarie del potere sovietico, sia le ČSIR, sia i membri convinti del partito comunista – al momento dell’arresto avevano un qualche rigido sistema di valori morali e orientamenti.
Al terzo gruppo (poco numeroso) di memorialiste si può ascrivere V.G. Ievleva-Pavlenko (1928-) arrestata nel 1946 ad Archangel’sk. Durante la Guerra patriottica la Ievleva-Pavlenko (allieva di scuola media e poi studentessa di uno studio teatrale) andava a ballare al Club internazionale e incontrava marinai americani. Accusata di spionaggio, fu invece condannata a sei anni per propaganda antisovietica. Scontò la pena nel lager n. 101, alla costruzione della «strada morta» Labutnagi-Salechard. Al momento dell’arresto la Ievleva-Pavlenko aveva una figlia di un anno, Bella, che dopo la morte della nonna fu inviata in orfanotrofio. Le idee della memorialista erano piuttosto indefinite: «Io pensavo, se nel paese ci sono tanti delinquenti, significa che il sistema carcerario non era efficiente. Dunque, bisognava escogitare qualcosa di diverso… Io, che non avevo commesso crimini, dovevo vivere insieme a criminali comuni, lavorare per loro, dato che la maggioranza di loro non lavorava. Non è giusto». Nello stesso tempo, trovatasi in lager, acquisì più in fretta degli altri le nuove «norme» della vita e senza pensarci due volte scacciò una detenuta debole dal tavolaccio inferiore nella baracca – per stare vicino alle sue nuove amiche criminali-comuni.
Il destino di lager della Ievleva è un po’ simile alla vita della sua compagna di sventura più anziana, A.P. Zborovskaja (1911-), arrestata nel 1929. La Zborovskaja scontò la pena nel lager delle Solovki, dove ebbe un figlio. Dopo la liberazione (1932) lavorò come educatrice nel sistema del GULAG. La Zborovskaja descrisse la storia della sua detenzione nelle lettere al collaboratore di Memorial A.V. Mel’nik. Zborovskaja non indicò il motivo dell’arresto. Come la Ivleva, al momento dell’arresto la Zborovskaja non aveva orientamenti ideologico-morali precisi. Perciò nel lager assimilò così presto la legge «muori tu oggi, e io domani»: La Ievleva raccontò che, senza pensarci due volte, si lanciò con un coltello per riprendersi il vestito che le era stato rubato di notte; la Zborovskaja non vide niente di male nell’andare a lavorare nel sistema dell’NKVD dopo la liberazione.
Nella maggior parte dei casi tutte le donne elencate scrivevano con uno scopo (di cui non sempre erano chiaramente consapevoli) di autoaffermazione, il che in generale è caratteristico delle donne scrittrici. Ciò era particolarmente importante per le donne memorialiste che ricadevano nel gruppo delle socialmente reiette e «gettate» nelle istituzioni che maggiormente umiliavano la dignità umana: il carcere e il lager. Avendo sperimentato l’isolamento del carcere e la mancanza di comunicazione, cercavano di recuperare la perdita – e attraverso le memorie o le opere letterarie autobiografiche acquistarono un uditorio. L’esperienza della detenzione in carcere o in lager aiutò molte a scoprire sia il proprio talento letterario, sia una chiara personalità di scrittrici.
La studiosa americana B. Holmgren distingue due tipi di letteratura memorialistica femminile del periodo sovietico: per le prime autrici «esiste una gamma rigida e immutabile di valori morali, un profondo rispetto per la creazione e il creatore, un rapporto scrupoloso per i dettagli nei ricordi e l’osservanza di determinate regole di etichetta sociale e culturale (p.e. il silenzio sulle questioni riguardanti il sesso, che umiliano il volto delle persone degne, la mancanza di una curiosità irrispettosa). Questo tipo di memorie rappresenta, a suo parere, «la tradizione più popolare delle memorie sovietiche non ufficiali, una sorta di «letteratura agiografica». Caratterizzando le particolarità del secondo tipo di narrazioni del lager, la studiosa osserva che in esse, a differenza delle prime, «vengono distrutti gli stereotipi di comportamento imposti alle donna sia dalla società, sia dallo stato», «il tabù nella sfera dello strettamente personale» vengono smascherate «la falsità e l’artificiosità legate al concetto di “bellissima dama”…»
I temi puramente femminili: la maternità, la sessualità, la violenza, la solidarietà, si rifletto in un modo o nell’altro nelle memorie di entrambi i tipi, e tuttavia di più nel secondo. Questi temi sono interessanti per il fatto che in virtù della loro universalità forniscono ricco materiale per il confronto con la raffigurazione letteraria della «storia della vita quotidiana». Non bisogna dimenticare che nella tradizione delle memorie letterarie russe del XIX secolo esistevano tabù piuttosto rigidi sulla descrizione delle funzioni fisiologiche dell’organismo, del parto, dei rapporti sessuali –tutto ciò non era argomento di discussione «nella buona società» e non era oggetto di narrazione letteraria. Il lager con la sua morale semplificata sembrerebbe dover annullare molti tabù. E nondimeno: perfino uno sguardo fuggevole sui testi delle memorie femminili permette di dire: no, essi si sono conservati. Così, se il «bugliolo» si incontra in quasi tutte le memorie senza eccezione (il che è indubbiamente legato alla tradizione delle memorie carcerarie del XIX secolo), alle mestruazioni accennano solo tre delle memorialiste, e comunque di sfuggita, senza particolari.
Roza Vetuchnovskaja dice delle condizioni estreme di esistenza durante il trasferimento nell’estate del 1941. «In un primo momento non ci rendevamo conto che … in quei vagoni non c’erano latrine, non c’era bugliolo, che se cominciavano le funzioni femminili (a molte a quell’epoca si conservavano ancora), non c’era dove lavarsi…» Sempre lei, scriveva più avanti: «Continuavano le funzioni femminili, e non c’era assolutamente posto dove lavarsi. Ci lamentavamo col medico che ci si formavano semplicemente delle piaghe. Per questo molte morivano, per la sporcizia si muore molto in fretta» Maja Ulanovskaja nota di sfuggita: «Chiesi alla sorvegliante di chiamare il medico: avevo bisogno di cotone…» Irina Curkova – detenuta in lager più tardi di tutte, negli anni ’80, nel saggio «Carcerologia» comunicò un elenco di cose necessarie per le arrestate: «per le donne: rossetto in un astuccio di plastica, … cotone (di solito in carcere non è un problema, ma non si sa mai)…» In altre parole, di questo argomento la memorialistica della «piccola zona» non è uscita dai confini comunemente accettati della memorialistica della zona «grande». È interessante confrontare questo aspetto delle memorie femminili sui lager sovietici con le memorie femminili sui lager della Germania nazista. In esse il tema delle mestruazioni e dell’amenorrea ha un significato sraordinario. Ciò si spiega da una parte con la politica stessa del genocidio, che cercava di ridurre a zero il fatto stesso della possibilità di procreare della donna. Dall’altra parte le memorialiste dell’Olocausto, ex detenute di Auschwitz (Fania Fenelon, Gerda Klein) si appoggiavano su una tradizione letteraria occidentale in cui i tabù non erano così nettamente delineati come nella letteratura russa.
Il tema della sessualità turbava molti – e molte detenute russe non ne parlano. Jaroslavskaja-Markon, violando tutte le norme accettate di comportamento (viveva in una strada con i senzatetto, rubava) sembrerebbe che dovesse scrivere anche di questo argomento proibito, ma si rivelò così presa dalla politica e dall’idea di fratellanza di detenuti politici e comuni, che dovevano (secondo lei) unire i loro sforzi nella lotta contro il Potere sovietico, che questo tema non entrò mai nella cerchia dei suoi interessi. Raccontando la vita in Siberia, dove si trovava al confino, descrisse gli abitanti confinati di una casa di pietra a Ustjužnja: «Vivevamo in una casa “bianca” in una piccola, molto unita comune di ladri… Io ero l’unica donna… Uno dei ragazzi, scherzando diceva: “Hanno paura di noi come dei briganti, mentre noi qui viviamo senza zuffe né sbornie… Una donna vive con noi come una sorella e noi non la tocchiamo…” Tutto questo era la verità».
Ol’ga Jafa-Sinakevič sfiora il tema della sessualità in termini filosofico-poetici. «”Guardi, – mi disse una ragazza avvicinatasi casualmente alla finestra, che anche lei come me si stava preparando qualcosa da mangiare. – Guardi quel giudeo rosso (il responsabile delle celle d’isolamento) ieri ha ricevuto i soldi da casa e ha dichiarato alle ragazze che pagherà loro un rublo per un bacio. Guardi che cosa fanno adesso con lui!” Le lontananze del bosco e la superficie a specchio del golfo erano illuminate dalla luce serale roseo-dorata, e sotto, in mezzo al prato verde, al centro di uno stretto girotondo di fanciulle stava, a braccia aperte, il responsabile delle celle d’isolamento, e, accoccolandosi sulle gambe rachitiche, le afferrava a turno e le baciava, e loro, rovesciate indietro le teste e tenendosi strette per mano, con risate selvagge giravano forsennatamente intorno a lui, alzando i piedi scalzi e divincolandosi abilmente dalle sue mani. Negli abiti corti che coprivano a malapena i loro corpi, con i capelli scarmigliati, somigliavano più a esseri mitologici che a ragazze moderne. «Un satiro ubriaco con le ninfe», pensai».
Più sincera si rivelò Evgenija Pol’skaja, che dedicò un intero capitolo («Mughetti e violette») delle sue memorie alla sessualità e al sesso nel lager. «Mi colpì non il fatto stesso della libido, non il fatto che fosse così manifesta, ma la sua cinica, «sporca» inevitabilità (come il respiro), la sua sfaccettatura brutalmente fisiologica», scrive, e scrive dalla posizione di una persona che conosce la cultura occidentale e non accetta l’ipocrisia piccolo-borghese sovietica nei confronti del sesso: «Non per “pruderie”, che non mi è mai stata propria, ma per contrapposizione al fascismo nazionale, anche se all’epoca lo immaginavo confusamente». Descrivendo i rapporti sessuali nel lager, di cui era stata testimone, la Pol’skaja dice: «Mi posi subito lo scopo di evitare la «castità artistica» in nome della verità documentaria delle cose: orribile come il più spaventoso degli incubi».
Un altro aspetto delle esperienze femminili e un altro lato della quotidianità del lagher mostrano i racconti di Valentina Ievleva sulle sue numerose storie d’amore di lager (anche se non accenna mai al sesso in quanto tale). La parola «amore» domina nelle descrizioni dei suoi rapporti intimi (sia nel lager, sia con i marinai americani) – e in questo si manifesta fra l’altro anche l’educazione di questa donna sui testi letterari dell’epoca sovietica. «Non mi separerò mai dalla speranza di amare ed essere amata, perfino qui in prigionia trovo l’amore», scrive la memorialista. «Se si può chiamare il desiderio con questo nome. In ogni fibra il desiderio di giorni appassionati… Di notte Boris è riuscito a mettersi d’accordo con i guardiani e abbiamo avuto un gioioso incontro. L’amore vero vince tutti gli ostacoli sul suo cammino. La notte è passata come un attimo meraviglioso. La mattina hanno portato Boris nella sua cella, e io resto nella mia…» Le memorie della Ievleva dimostrano con straordinaria evidenza che la sessualità e il sesso nel lager potevano essere e spesso diventavano un modo per sopravvivere (cosa di cui parlano le storie d’amore con capisquadra, direttori di cantieri e simili), anche se proprio questi rapporti in parte traevano in inganno le donne, le rendevano più vulnerabili.
L’aspetto sessuale del lesbismo non viene menzionato spesso (le memorialiste hanno nei suoi confronti quasi sempre un atteggiamento negativo), talvolta invece lo sono i rapporti vicini all’amore omosessuale. Così, per esempio, V.R. Nikitina (1897-1976), che fu arrestata nel 1930 per partecipazione all’organizzazione anarchico-mistica «Ordine della luce» e lavorò tre anni al Belomorkanal e al Svir’lag, scrive delle abitanti della baracca femminile di Parandovo: «Erano tutte prostitute e lì restavano tali. Così guadagnavano, ma ognuno prendeva compensi diversi per i suoi servizi…. A parte i «clienti» avevano anche i «gatti», gli amanti… Oltre al «gatto», ognuna aveva anche un’amichetta. Per un’amichetta sottratta si arrivava fino al sangue, alle coltellate. Ricordo due amichette come queste di Parandovo. Una di loro si dovette, non ricordo perché, ricoverare in ospedale. La sera, durante il giro di visite, scoprii nella branda vicina la seconda, domando: “E tu che ci fai qui?”. Mi mostrò una profonda ferita di coltello sul fianco: “Lo sa, sorellina…” Certo che lo so: per non separarsi, rano pronte a tutto, non solo a una sciocchezza come “sedersi per sbaglio su un coltello”…». Più spesso di «amicizia» lesbica si parla nelle memorie che raccontano dei lager dopo la loro divisione in maschili e femminili nel 1948. Estranea alle convenzioni, Evgenija Pol’skaja testimonia che a quell’epoca «l’omosessualità, il lesbismo, l’accoppiamento con animali assumevano nei lager il carattere di una peste». Maja Ulanovskaja scrisse del lesbismo nel lager come di una degradazione morale, equiparandolo alla delazione, al furto e agli altri peccati: «Ce n’erano particolarmente tante [di lesbiche] fra le criminali comuni, al secondo posto per numero – le tedesche, ce n’erano anche fra le nostre intellettuali. Le ucraine (contadine nella maggioranza) e anche le religiose non erano soggette alla degradazione morale, [e perciò] inattaccabili da qualsiasi contagio del lager: delazione, furto, convivenza con i capi e, infine, lesbismo». Tuttavia, nonostante il lesbismo sia elencato fra i vizi, la memorialista ne parla con lieve ironia: «Ricordo come sulla mica durante il lavoro una giovane criminale con tono epico raccontava: “Allora ero ragazza. Non stavo con gli uomini, solo con le donne”. Tuttavia, come testimonia il testo delle memorie, le «leggi» del lager erano piuttosto rigide: i rapporti amichevoli della Ulanovskaja con la tedesca lesbica Ursula suscitarono la protesta delle amiche del lager, la Ulanovskaja cedette alle loro insistenze e troncò l’amicizia.
Elena Glinka, condannata nel 1950 a venticinque anni per aver taciuto che durante la Guerra patriottica si trovava in territorio occupato, nel saggio autobiografico «La stiva» scrive della lesbica Strelka: «Mi aspettavano cinque criminali (nel gergo del lager «žučki»), capitanate dalla ladra soprannominata “Strelka”, all’aspetto né più né meno che un bel giovanotto, ed era stupefacente come mai nella stiva femminile si fosse trovato un uomo». Quando i criminali uomini ruppero il muro della sezione femminile della stiva e cominciò uno stupro di massa, Strelka fu una delle prime che cercò di uscire sul ponte, perché «lei era una lesbica, e quelle come lei i ladri le facevano a pezzi vive». Le ČSIR praticamente non scrivono mai di rapporti sessuali: la stragrande maggioranza di loro a causa dell’orientamento ideologico sovietico conserva quella stessa «castità artistica» ci cui scriveva Evgenija Pol’skaja.
La maternità è un tema molto più difficile per le memorialiste del lager. Una spiegazione la si può trovare nello stereotipo comune per la cultura europea della madre ideale: amorevole, priva di qualsiasi egoismo, tranquilla, che si dedica ai figli senza riserve. La più piccola deviazione dallo stereotipo o dal comportamento stereotipato è distruzione dell’immagine ideale. I ricercatori psicologi ritengono che «le madri cercano di imitare l’immagine stereotipa mitica, seguire i consigli che danno loro; quando poi il mito si allontana dalle reali condizioni di vita, quando i consigli non aiutano, le madri provano inquietudine, senso di colpa e cadono nella disperazione. Per lo studioso di letteratura è difficile non notare che nelle memorie femminili il tema della maternità è espresso dalla maggiore quantità di cliché linguistici e stilistici («I riccioli d’oro», «la creatura angelica» e simili).
La maternità sia nella zona «grande» che in quella «piccola» era una questione di scelta. Anna Skripnikova, avendo visto nel sotterraneo della ČK nel 1920 na madre che moriva di fame con il bambino denutrito fra le braccia, prese la decisione cosciente di «non essere madre sotto il socialismo». Nello stesso tempo, nella «piccola zona» la maternità dava alle donne un’apparente possibilità di scelta: una certa illusione di controllo sulla propria vita. Essa per qualche tempo liberava dalla solitudine e regalava anche un’altra illusione – di una libera vita famigliare. Per un determinato gruppo di detenute (soprattutto ČSIR e comuniste devote) la maternità poteva definire il posto sociale. Diciamo, Elena Sidorkina lavorava nell’ospedale come infermiera, aiutava le donne a partorire, ma questo suo lavoro non suscitava in lei nessun sentimento, in quanto «partorivano donne appartenenti alla criminalità comune», che li considerava donne (e madri) di specie inferiore: «Per loro le regole del lager non esistevano, potevano incontrarsi quasi liberamente con i loro amici, ladri e farabutti come loro.» Evgenija Ginzburg, che aveva un diverso livello di istruzione, rispetto alle «mamme» nel lager di El’gen ha una sua ironia. «Ogni tre ore vengono le mamme ad allattare. Fra loro ci sono anche le nostre politiche, che si sono arrischiate a mettere alla luce un bambino di El’gen. Tuttavia la massa fondamentale delle mamme sono delinquenti. Ogni tre ore organizzano una rappresaglia contro il personale medico, minacciando di ucciderlo o rovinarlo il giorno stesso che morirà Alfredino o Eleonoruccia. Davano sempre ai figli lussuosi nomi stranieri».
Ma come spiegavano quelle “politiche” che partorivano in lager, la loro decisione di avere un figlio? Ch.V. Volovič (1916-), autrice delle memorie «Sul passato», che prima dell’arresto lavorava come correttrice e nel 1937 ebbe quindici anni di lager, scrive che proprio la solitudine era per lei il fattore più tormentoso. «Semplicemente fino alla follia, fino a sbattere la testa contro il muro, fino alla morte avevo voglia di amore, tenerezza, carezze. E avevo voglia di un bambino – l’essere più caro e vicino, per il quale non dispiacerebbe dare la vita. Io ho retto relativamente a lungo. Ma era così necessaria, così desiderata una mano cara, perché ci si potesse appoggiare anche solo leggermente in quella solitudine di molti anni, nell’oppressione e umiliazione. Di mani simili me ne furono tese non poche, di essi non scelsi la migliore. E il risultato fu un’angelica… bambina, che io chiamai Eleonora» (in seguito la figlia morì nel lager).
Diverso il destino di T.V. Petkevič (1920-), che intitolò i suoi ricordi «La vita è uno stivaletto spaiato». Un tempo studentessa dell’istituto medico di Frunze, fu arrestata nel 1943, scontò 10 anni, e dopo la liberazione cambiò radicalmente vita: divenne attrice. Nel lager la Petkevič conobbe un medico libero, che le salvò la vita, inviandola in ospedale e con ciò stesso liberandola dai lavori pesanti. «Lui… è il mio unico difensore. Se non mi avesse preso da quella colonna che lavorava nella foresta, da tempo sarei stata gettata in una fossa. Contro il buon senso io ho creduto: quest’uomo mi ama. È arrivato un sentimento più confuso che gioioso di aver trovato… Un amico? Un uomo? Un difensore?» La Petkevič lavorò nell’ospedale del lager e nella brigata teatrale. Della gravidanza scrive come di «un improvviso “stop”», «un colpo che restituisce lucidità». «I dubbi rodevano, confondevano la ragione, – confessa. – Perché quello era un lager! Dopo la nascita del bambino avrei dovuto scontare qui ancora più di quattro anni. Ce l’avrei fatta?» Le sembrava che con la nascita del bambino sarebbe nata una nuova vita. Proprio nel testo delle sue memorie lo studioso trova una dettagliata descrizione di un parto difficile, assistito dal medico – padre del suo bambino. Ma il bambino non portò né la felicità attesa, né una nuova vita: quando il bambino compì un anno, il padre del bambino lo tolse alla Petkevič e insieme a sua moglie, che non poteva avere figli, partì. Quando la Petkevič fu liberata dalla detenzione e tentò di riprendersi il figlio, il bambino ormai considerava sua madre la matrigna e rimase con lei, lasciando la Petkevič senza alcuna speranza.
Anche Anna Zborovskaja ebbe un bambino trovandosi nel lager. Ne ha scritto brevemente e spassionatamente: «Poi ci fu Losev Miša, in seguito da lui ebbi il figlio Jurik. Fu il mio primo amore, nel lager ero arrivata bambina… Dopo la nascita di Jurik mi inviarono in una certa isola, in un monastero». Altrettanto tranquillamente ha scritto della morte del figlio: «Il bambino visse più di due anni. Morì, non poté acclimatarsi, era malato. Mi sposai felicemente, finii gli studi». Sembra che per tutte le memorialiste che decisero di avere un bambino nel lager, la maternità sia legata alla tragedia.
Particolarmente spesso nelle memorie si incontra il tema della separazione dai figli. «La maggioranza di noi si affliggeva per i figli, per il loro destino», scrive la Granovskaja. Questo è un tema più «innocuo», dato che la separazione è causata da forze indipendenti dalle donne memorialiste, e in tal modo permette di conservare lo stereotipo della madre ideale. Verženskaja scrive di un regalo che riuscì a inviare al figlio dal lager: «E la caposquadra mi permise di prendere dei resti di cotone mouliné per ricamare una camicina a mio figlio di tre anni. Mia madre su mia richiesta in uno ei pacchi mi aveva mandato un metro di tela e io negli intervalli fra il lavoro… ricamavo e cucivo la cara camicina. Tutto il reparto era contento, mentre leggevo sulla lettera, che Jura non voleva a nessun costo cedere la camicina e per la notte la metteva sulla sedia accanto a sé».
Tutte le donne ricordavano i giorni trascorsi con i figli alla vigilia dell’arresto così spesso, che molte avevano la sensazione che nel locale «entrassero sorrisi di bambini e lacrime infantili. E le voci degli Jurka, Slavka, Iročka, che domandavano: «Dove sei, mamma?». Granovskaja descrive l’isteria di massa, suscitata dai ricordi dei bambini nel lager: «Le georgiane… cominciarono a piangere: “Dove sono i nostri figli? Che ne è di loro?” Dopo le georgiane cominciarono a singhiozzare anche tutte le altre, ed eravamo cinquemila, e c’era un gemito di tale forza, che sembrava un uragano. Accorsero i capi, cominciarono a interrogare, minacciare… promisero di permetterci di scrivere ai figli». Nel lager di Tomsk la Medvedskaja fu testimone di come piangevano le donne che avevano visto la separazione di una madre con la figlia di un anno Eločka, che la nonna aveva preso per educarla: «Nella nostra cella tutte piangevano e perfino singhiozzavano. Una delle nostre donne ebbe una crisi epilettica – le une le tenevano le braccia, le altre le gambe, e le terze la testa. Cercavano di non farla battere contro il pavimento». I ricordi di Evgenija Ginzburg parlano di uno «scoppio di disperazione di massa»: «Singhiozzi collettivi con urla: “Figlioletto! Bambina mia!» E dopo queste crisi l’assillante sogno della morte. Meglio una fine orrenda, che l’orrore senza fine». Alcune delle memorialiste ricordano tentativi di suicidio dopo le isterie di massa: «Ben presto vennero anche le prime risposte dai bambini, che naturalmente suscitarono amare lacrime. Una decina di giovani, belle donne impazzì. Una georgiana fu trascinata fuori dal pozzo, altre tentavano di continuo di suicidarsi».
Con i bambini delle detenute lavoravano solo le donne, sicché il ricercatore può trovare le descrizioni dei nidi nei lager e delle condizioni di vita dei bambini soltanto nelle memorie femminili. I bambini nel lager erano oggetto di amore esaltato e cura. E se le ČSIR guardavano con riprovazione le donne che avevano deciso di avere un bambino nel lager, questa condanna non si estendeva affatto ai bambini. Nelle “città” o “kombinat” dei bambini nella zona erano tenute le madri con i bambini lattanti , o solo i bambini ai quali conducevano le madri detenute per l’allattamento. La Ginzburg, che lavorava in una città dei bambini, scrive: «Per la baracca andavano e venivano, arrancavano, strillando e ridendo e sciogliendosi in lacrime, una trentina di bambini…. Avrei voluto raccoglierli tutti intorno a me, stringerli forte, perché nessuno finisse sotto i colpi del fulmine. E avrei voluto recitare su di loro: “Ma voi miei tesori…!”» Qui non c’è ombra della condanna che è così evidente in lei nei confronti delle madri. Spesso le madri si aiutavano l’un l’altra ad accudire i bambini. Zborovskaja allattava il bambino di una donna morta di parto («il bambino rimase vivo, io lo allattai ancora, poi lo portarono non so dove, piansi tanto, era un bambino così carino»). Petkevič aiutava ad allattare la bambina di una detenuta («Alla mia bambina non basta il latte! – si rivolse supplicandomi Serafima Iosifovna. Così Nataša dagli occhi marroni divenne “sorella di latte” di Jurik»). Il bambino in lager era visto come un ricordo del passato e una speranza nel futuro.Secondo le parole della Medvedskaja, «i bambini erano oggetto di amore e cura per tutti noi» – perché erano il simbolo della vita che continuava.
La lingua del lager definiva le donne in termini di maternità («mamme») e sessualità («zoccola», «fica» ecc.). Anche la violenza aveva la sua terminologia: «finire sotto il tram» significava essere vittima di uno stupro di gruppo. I temi legati alla violenza fisica si incontrano di rado e solo nella letteratura, anche se vi si possono individuare chiaramente dei motivi autobiografici.
La più famosa fra le descrizioni di violenza e maltrattamento sulle donne sono i racconti di Elena Glinka «La stiva» e «Tram di medio peso della Kolyma», pubblicato ancor prima del definitivo collasso dell’ideologia comunista nella rivista «Neva» nel 1989 e che sconvolse tutta la parte intellettuale della società russa postsovietica per la scena in esso inclusa di uno stupro di gruppo delle detenute di un lager. Nel «Tram della Kolyma» non c’è un «io» narrante. Una delle protagoniste – una studentessa leningradese – evita la violenza di gruppo solo perché «per tutti e due i giorni …l’aveva scelta l’organizzatore di partito della miniera… Per rispetto verso di lui nessuno toccò più la studentessa, e lo sesso organizzatore di partito le fece perfino un regalo – un pettine nuovo, oggetto molto richiesto nel lager. La studentessa non dovette né urlare, né dibattersi, né cercare di divincolarsi come le altre – lei era grata a Dio di essere toccata a uno solo». Nel racconto «La stiva», che racconta di uno stupro di massa nel 1951 nella stiva della nave «Minsk», che andava da Vladivostok a Nachodka, la narratrice riuscì a sfuggire dalla stiva sul ponte, dove con un piccolo gruppo di donne detenute rimase fino alla fine del viaggio. La memorialista anche in questo caso cerca di immaginarsi come una partecipante agli avvenimenti, ma non come una delle vittime. La letteratura lo consente, creando una certa distanza fra l’autore e l’avvenimento.
Inoltre lo stupro è forse il meno memorialistico dei temi. Questo tema nei ricordi non riguarda mai direttamente l’autrice. Julija Danzas scrive di donne violentate nel lager delle Solovki: «Gli uomini… giravano intorno alle donne come un branco di lupi affamati. Furono i capi del lager a dare l’esempio, esercitando i diritti dei signori feudali sulle donne-vassalle. Il destino delle giovani donne e delle monache induceva a pensare ai tempi dei cesari romani, quando una delle torture era mettere le fanciulle cristiane nelle case del vizio e della dissolutezza». La Danzas, teologa e filosofa, trova il parallelo storico con i primi secoli del cristianesimo, ma l’associazione stessa allontana la realtà e rende più astratti gli avvenimenti.
Ljubov’ Beršadskaja, che lavorava come traduttrice e insegnante di lingua russa alla missione militare americana a Mosca, fu arrestata nel marzo del 1946 e condannata a tre anni; appena scaduto il termine, fu arrestata nuovamente nel 1949 e condannata a dieci anni di lager. Scontò la seconda pena in Kazachstan, a Kengir, quindi a Kurgan e a Pot’ma, diventando partecipante della famosa rivolta dei detenuti di Kengir nel 1954. Ecco cosa scrive della distruzione della parete fra il lager femminile e quello maschile a Kengir prima dell’inizio della rivolta. «A mezzogiorno le donne videro che gli uomini scavalcavano il recinto. Chi con corde, chi con una scala, chi sulle sue gambe, ma in un flusso ininterrotto». Tutte le conseguenze della comparsa degli uomini nel lager femminili sono lasciati alla fantasia del lettore.
La reazione di Maja Ulanovskaja alla comparsa degli uomini sulla porta della baracca femminile è piuttosto ingenua e opposta alla paura animalesca di cui scriveva la Glinka. «Ci chiusero nella baracca, per cui i detenuti uomini che vivevano qui prima di noi non erano ancora stati mandati via dalla colonna. Si avvicinarono alla porta alcuni uomini, aprirono il chiavistello esterno. Ma noi ci chiudemmo dall’interno, dato che i sorveglianti ci avevano spiegato che [sic!] se avessero fatto irruzione era molto pericoloso, perché da molti anni non vedevano una donna…» «Gli uomini bussavano, chiedevano di aprire la porta per darci un’occhiatina, ma noi tacevamo spaventate, – ricorda Ulanovskaja. – Finalmente io decisi che tutto ciò che ci dicevano di loro era falso e aprii il chiavistello. Alcune persone entrarono, guardandosi in giro… Avevano appena cominciato a chiedere da dove venivamo, quando fecero irruzione i sorveglianti e li scacciarono».
Tamara Petkevič fu testimone di uno stupro di gruppo nella baracca. «Tirata giù una, una seconda, una quinta delle kirghise che opponevano resistenza, imbestialiti e infoiati i detenuti comuni cominciarono a spogliarle, a gettarle sul pavimento e a violentarle. Si formò una mischia. Le grida femminili coprivano le risa sguaiate, l’ansimare disumano…» Cinque detenuti politici salvarono in quel frangente la Petkevič e la sua amica. Irina Levickaja (Vasil’eva), condannata nel 1934 per il caso di suo padre, un vecchio rivoluzionario, a cinque anni di lager, non ricordò il nome della persona che la salvò da uno stupro di gruppo sulla tradotta. Tenne a mente molti piccoli particolari quotidiani legati a lui, ma il desiderio di dimenticare il trauma psicologico era evidentemente così forte che il nome del testimone della sua completa impotenza in quella situazione fu da lei cancellato coscientemente o inconsciamente dalla memoria. In questo caso l’oblio equivaleva alla negazione dell’evento stesso. Il tema della violenza fisica è legato non solo al rivivere di nuovo il trauma, ma anche al pieno e assoluto riconoscimento della posizione di vittima – e le detenute del lager, di regale, tendono a evitare proprio questo.
La vittima nel lager di solito viene definita come «detenuto che vive secondo il codice morale dei suoi persecutori. In effetti, l’autopercezione della vittima è esattamente riscontrabile nelle memorie delle ČSIR. Le ČSIR nella maggioranza dei casi condividevano il punto di vista ufficiale sugli avvenimenti politici e prendevano il proprio arresto come un errore: Verženskaja, per esempio, entrò nella cella del carcere della Lubjanka con le parole: «Adesso mi chiameranno!» Si sentì rispondere: «Ti chiameranno… fra cinque anni!» Così aveva detto «una delle donne sconosciute» («O forse anche fra otto, replicò un’altra». Ljudmila Granovskaja prese i versi «La patria che diventa estranea, Non c’è peggior dolore» come epigrafe a uno dei capitoli delle sue memoria – anche lei si sentiva vittima delle circostanze. Nella prefazione alle memorie «La vita è ovunque» Medvedskaja scrisse: «Abbiamo trascorso tutti gli anni di detenzione con la fede nel trionfo della giustizia. Nel fatto che nel lager lavoravamo onestamente come se fossimo in libertà, sorprendendo più volte con ciò le autorità del nostro lager. Davvero, è sufficiente guardare i prospetti di realizzazione del piano di produzione… In questi prospetti il centocinquanta – duecento percento della realizzazione non era una rarità per i nostri ČSIR, piuttosto la regola». Cioè, considerando il proprio arresto «un mostruoso errore», continuavano a ingannarsi col pensiero che «anche qui» lavoravano per il bene della loro amata patria.
Per le ČSIR nei lager (soprattutto in quelli come il lager per ČSIR di Tomsk) era tipica una rapida restaurazione della gerarchia, che riproduceva la gerarchia della «grande zona». Ksenija Medvedskaja e le sue amiche del lager di Tomsk Polina Pachnova, Antonina Ušakova, si ritrovarono perciò in fondo alla scala gerarchica: i loro mariti occupavano tutt’altro che le più alte posizioni nell’apparato dello stato sovietico. (Il marito della Medvedskaja Petr Konstantinovič prima dell’arresto lavorava come vicedirettore dell’ufficio forestale dell’ufficio approvvigionamento cooperativo di Leningrado, e il marito della Pachnova, Nikolaj Matveevič, prima dell’arresto era direttore della stamperia di Gatčina). In tutt’altra posizione erano le donne di noti esponenti del partito, cosicché le suddette memorialiste «sapevano soltanto» della presenza nel lager di Ida Jagoda (moglie del commissario del popolo agli affari interni Genrich Jagoda), di Sarra Jakir (moglie del comandante di armata Iona Jakir). Anna Larina, che si trovava nello stesso lager nello stesso 1938, apparteneva a una cerchia completamente diversa: era appunto vicina a Sarra Jakir, e a Ljudmila Šapošnikova, moglie di M.S. Čudov, secondo segretario del comitato regionale di Leningrado del partito bolscevico. Fra le mogli dei traditori della Patria che temevano di violare il regime («fra noi ciascuna badava a che nessuno violasse le proibizioni») la Šapošnikova è un caso a parte che merita particolare menzione. Prima dell’arresto L.K. Šapošnikova lavorava come direttrice della fabbrica «Ottobre rosso» del Commissariato del popolo all’industria alimentare. Nel 1937 capitò sotto l’ondata di arresti come ČSIR e si ritrovò condannata a otto anni di lager. Nel lager di Tomsk lavorò come direttrice delle cucine. Šapošnikova cercò di migliorare le condizioni di vita delle detenute, di ottenere il diritto alla corrispondenza. La Medvedskaja ricorda: «Un giorno nella nostra cella entrò una donna di statura appena superiore alla media, una bionda con un viso e un sorriso molto simpatico. Dopo averci dato un’occhiata, chiese: “Compagne! Dite di cosa avete bisogno!” e scrisse in un quadernetto ciò di cui ciascuna aveva bisogno (vestiti o informazioni sui figli, per esempio). “Come siete poco attive, così non va!” – era Ljudmila Kuzminična Šapošnikova». Leggendo queste righe dei ricordi, è difficile non notare i tratti caratteristici del comportamento di questa «dirigente», ritrovatasi per volere del destino dietro le sbarre, del suo personale rifiuto di un atteggiamento passivo verso la giustizia. La Medvedskaja ricorda che la Šapošnikova proclamò uno sciopero della fame esigendo la corrispondenza e che le venisse offerto un lavoro, e nel 1939 fu trasferita sotto scorta a Mosca, dove fu condannata alla pena capitale e fucilata nel maggio 1942.
Nei loro ricordi gli ČSIR, e le donne in misura minore degli uomini, cercano di giustificarsi agli occhi dei lettori delle loro memorie. Proprio nei loro ricordi si incontra il paragono fra le donne detenute e i bambini, che si incontra spesso nella memorialistica carceraria femminile occidentale. Cos’ Ksenija Medveskaja scrive del trasferimento delle donne detenute nel lager di Tomsk: «Letteralmente non ci accorgevamo di niente intorno a noi ed eravamo occupate dalla gioia della vita in comune di nuova… O, bambine! Quanto di infantile si incontra nelle persone adulte…. Quando aprirono le celle, erano presenti le autorità del GULAG. Guardavano con un sorriso come ci precipitavamo in fretta in corridoio e ci lanciavamo una nelle braccia dell’altra, alcune piangevano». È interessante che proprio in questo paragone con i bambini, nell’infantilismo delle donne, si rifletta tutto lo schema patriarcale della società sovietica: Stalin era «il padre», gli eroi (Čeljuski, Papanin ecc.) «i figli», tutti gli altri «la famiglia» e alle donne era riservato il ruolo di «bambini» che dovevano essere obbedienti e sottomessi. Chi li difendeva? Chi li aiutava?
Il tema della solidarietà si incontra in tutte le memorie. Come si è osservato più volte, le donne di solito apprezzano particolarmente i legami comunicativi e gli affetti orientati verso di essi. Irina Curkova nella «Carcerologia» scrive: «I detenuti nella zona molto spesso si riuniscono in “famigliole”, cioè 2 o 3, talvolta 4 persone gestiscono gli averi insieme. Si riforniscono insieme allo spaccio, mangiano insieme, acquistano le cose necessarie ecc. Essere membro di una “famigliola” è comodo: dà una certa protezione sia di proprietà, sia sociale (di regola i membri della famigliola si difendono a vicenda in caso di conflitti con altri detenuti, il che… lascia molto tempo libero). Non vi tocca per tutto il tempo libero correre fra il negozio, il bagno, la lavanderia e il caporalato, tutte queste faccende saranno suddivise in parti uguali». Leggendo le memorie, il ricercatore vede che le donne, di regola, si riunivano in gruppi secondo la confessione religiosa, la nazionalità, il partito, secondo i legami e le conoscenze che avevano in libertà, e infine, secondo alcune simpatie puramente umane. Jafa-Sinakevič nel saggio «Vigilia di natale nella tajga» descrive il ritorno di due detenute da un viaggio al villaggio per comprare generi alimentari: «Era passata da molto la mezzanotte, e la baracca dormiva già da tempo. Solo Vera Fedorovna vegliava, aspettando il nostro ritorno. Alla nostra comparsa riscaldò in fretta le nostre due porzioni di zuppa dello stato e bollì l’acqua… Sedute strette in tre in un angolo del pancaccio superiore e chiacchierando piano alla luce di una candela di stearina che avevamo portato, infilata in una bottiglia vuota, bevevamo l’acqua bollita dai nostri boccali di argilla delle Solovki, mangiando panpepati alla melassa e caramelle campagnole. Ci confidavamo le impressioni della giornata vissuta separatamente…» La sopravvivenza in gruppo era decisamente più facile che la sopravvivenza in solitudine. Inoltre il gruppo dava la possibilità di comunicare, e questa esigenza era talvolta «maggiore del bisogno di cibo e sonno». Secondo le parole di Alla Tumanova, spesso «la gente si sedeva in gruppi o coppie sui pancacci, semplicemente sul pavimento e per ore si raccontava le sue storie poco allegre…» Era una specie di autopsicoterapia: le detenute davano sfogo ai sentimenti e alle emozioni. Non solo, nel desiderio di raccontare la propria storia era insito il tentativo di conservare la propria individualità, il proprio «io». Il regime totalitario faceva di tutto per privare i detenuti dell’individualità – a cominciare dal nome: i guardiani nelle carceri spesso chiamavano i detenuti per l’iniziale dei cognomi («Chi comincia per M? Esci!»). Nei lager di regime duro i detenuti portavano numeri sugli abiti. Natal’ja Kostenko, arrestata e condannata per aver aiutato i nazionalisti ucraini nel 1946, ricorda: «Andiamo al lavoro come monachelle, tutte vestite di nero, solo i brandelli con i numeri bianchi sono bianchi: sul petto, sulla schiena e sul fazzoletto, come una coccarda. Il mio numero era D-832, così ho girato fino alla liberazione…»
Tutti i legami con il mondo libero e con il passato erano spezzati. Ai detenuti i cui delitti erano invenzioni dell’istruttoria, veniva imposta una nuova «biografia criminale» creata dall’inquirente. «Il mondo dei lager con il loro orrore ed evidente caos sembrava irreale e incommensurabile rispetto alle norme del passato mondo libero. L’autocoscienza e l’autodeterminazione dei detenuti non potevano appoggiarsi a nulla, e si disgregavano da soli.» La solidarietà e l’aiuto reciproco nelle condizioni del lager erano una forma sui generis di opposizione al regime e portavano sempre alla vittoria morale sul sistema. La sopravvivenza stessa delle donne nel lager dipendeva dalla loro solidarietà – infatti fra i gruppo sorgevano spesso dei conflitti. Così, Anna Zborovskaja scrive che nel lager delle Solovki le «monache» odiavano le «mamme», le detenute con bambini lattanti: «Le monache erano più numerose delle mamme. Le monache erano cattive, non ci amavano, odiavano i bambini». È interessante che praticamente ogni gruppo si considerava migliore degli altri. E perfino la protesta di un gruppo contro le regole del lager era recepita come un fenomeno negativo. Così, Natal’ja Kostenko scrive con condanna delle detenute comuni che avevano appiccato fuoco al lager. L’incendio del lager era una delle forme di protesta, ma per la Kostenko ciò non era sostanziale, per lei contava l’idea che le «ladre» (detenute comuni) non avevano osservato le regole, le norme di comportamento.
La pulizia e l’igiene personale svolgevano un ruolo importante nel determinare la posizione del gruppo e nello stesso processo di sopravvivenza delle donne in condizioni estreme. Vera Šul’c, attrice di un teatro di Mosca, arrestata nel 1938 e rimasta sotto inchiesta nel carcere di Butyrki, scriveva: «Le donne in queste condizioni di parità con gli uomini sapevano in qualche modo conservare un volto umano». Per le donne l’osservare l’igiene personale aveva un ruolo importante, rituale e simbolico di conservazione del senso della propria dignità e spesso perfino della superiorità sugli altri. Le donne polacche scrivevano che loro, a differenza delle donne russe nei lager, osservavano l’igiene personale. Lo stesso si può dire delle ucraine occidentali, delle donne dei Paesi baltici, delle tedesche, che consideravano la pulizia un segno di più alta cultura e civiltà. La solidarietà e l’igiene personale erano strettamente legate al lavoro femminile tradizionale: la donna in casa badava alla pulizia e si preoccupava degli altri membri della famiglia. Nelle condizioni del lager (nelle «famigliole» o nei gruppi) il ruolo delle donne continuava, in tal modo, i tradizionali ruoli femminili.
In tutte le memorie, i diari, le lettere, le donne appaiono come protagoniste e attive partecipanti alla vita del lager. Tutte sono presentate in maggiore o minore misura come oppositrici al regime, che cercano di conservare l’indipendenza nelle condizioni di lavoro disumanamente pesante, fame, malattie, violenza fisica e morale. Tuttavia a tutt’oggi la memorialista femminile dei lager è ancora «letteratura di second’ordine» sia per forza d’autore, sia per il tema: la letteratura femminile resta tuttora una letteratura marginale. Il tema del lager poi ha perso novità, e con essa un vasto interesse dei lettori. E tuttavia non bisogna dimenticare che questa letteratura ha avuto nell’ultimo decennio la possibilità della pubblicazione. Insieme alla diffusione presso il vasto pubblico (e gli studiosi!) la memorialistica femminile dei lager ha dato la possibilità di vedere aspetti finora nascosti della vita nel lager, e attraverso il lager, anche nella «grande zona.» Le memorie femminile del lager sono sia letteratura, sia testimonianze senza le quali non siamo in grado di leggere questa pagina tragica del passato comune e, avendola meditata, girarla.
[1] La bibliografia più completa sulle carceri e i lager sovietici (comprese le memorie) è raccolta nel libro di Zorin L. Soviet Prisons and Concentration Camps. An Annotated Bibliography 1917-1918, Newtonville (Mass.), 1980. Vedi anche Indice bibliografico delle edizioni della società «Memorial» (1988-1995), Mosca 1995. La bibliografia dele memorie femminili, pubblicate dopo il 1980 e non rientrate nel libro di L.Zorin, è riportata nel mio libro Shapovalov V. (ed. and transl.) Remembering the Darkness: Women in Soviet Prisons. Boulder, 2001. Il più importante luogo di conservazione delle memorie di carcere e lager sono gli archivi della società «Memorial» a Mosca e a San Pietroburgo.
[2] vedi. A. Soženicyn. Una giornata di Ivan Denisovič, Mosca 1963; Il primo cerchio, Mosca 1990. V. Šalamov, Racconti della Kolyma, Leningrado 1878;I. Guberman: Pennellate al ritratto, Mosca 1994; Ju. Rjazanov, In un bel campo di concentramento, Ekaterinburg 1994; A. Obrosov, Legge – tajga, Mosca 1993; G. Sečkin, Dietro il filo spinato, Mosca 1999.
[3] Brombert V. The Romantic Prison: The French Tradition. Princeton, 1978.
[4] Sull’influenza reciproca di letteratura e memorialistica vedi William C. Spengemann. The Forms of Autobiography. Episodes in History of a Literary Genre. New Haven, 1980; L. Ginzburg, Sulla prosa psicologica, Leningrado 1971.
[5] Vedi per esempio O. Volkov, Immersione nelle tenebre, Mosca 1992; B. Širjaev, La lampada perenne. New York 1954; Ivanov-Razumnik, Prigioni e deportazioni, New York 1953, D. Panin, Lubjanka-Ekibastuz, Mosca 1991; L.Kopelev, Conservare in eterno, Ann Arbor, 1975, La differenza fra le memorie di lager femminili e maschili è stata notata molto brevemente da Barbara Heldt. Vedi: Heldt В. Terrible Perfection: Women in Russian Literature. Bloomington, 1987. Р. 153. Il tema della differenza fra le memorie di lager maschili e femminili di per sé è vasto e richiede uno studio a parte.
[6] La metafora «casa»/«prigione» è stata più volte rilevata dagli studiosi occidentali: Auerbach N. Romantic Imprisonment: Women and Other Glorified Outcasts. N.Y., 1985; Pratt A. Archetypal Patterns in Women’s Fiction. Bloomington (Ind.), 1981; Conger S.M. Mary Shelley’s Women in Prison // Conger S.M., Frank F.S. (ed.) Iconoclastic Departures: Mary Shelley After Frankenstein. Madison, 1997. Nella letteratura russa l’immagine della casa-prigione si osserva chiaramente nel racconto di Elena Gan «Il dono inutile». Vedi Andrews J. Elena Gan and A Futile Gift // Narrative and Desire in Russian Literature. The Feminine and the Masculine. N.Y., 1993. P. 85-138. Su Elena Gan vedi:. Elena Andreevna Gan. Russian Literature in the Age of Pushkin and Gogol: Prose. [Dictionary of Literary Biography]. Detroit-Washington (D.C.)- L., 1999. P. 132-136. Sulla non libertà delle donne nella letteratura russa femminile vedi:. Zirin M. Women’s Prose Fiction in the Age of Realism // Clyman T.W., Greene D. Women Writers in Russian Literature. Westport, 1994. P. 77-94
[7] Sulle particolarità letterarie delle memorie di Evgenija Ginzburg vedi: Kolchevska N. A Difficult Journey: Evgeniia Ginzburg and Women Writing of Camp Memoirs // Marsch R. (ed.) Women and Russian Culture: Projections and Self-Perceptions. N.Y. – Oxford, 1998. Sulle donne detenute vedi. G. Ivanova, «Le donne in carcere. Aspetti storico-giuridici», in N.L. Puškareva, E.I. Trofimova, Z.A. Chotkina (a cura di), «Donna, genere, cultura», Mosca 1999, pp. 270-284.
[8] A. Larina, Indimenticabile, Mosca 1989, E. Ginzburg, Viaggio nella vertigine. Cronaca dei tempi del culto della personalità. Mosca 1990.
[9] «Poi firmo che sono informata del fatto che mi daranno tre anni se 1) in libertà assolverò incarichi dei detenuti e 2) pubblicizzerò informazioni sul regime carcerario e del lager». N. Ulanovskaja, M. Ulanovskaja, Storia di una famiglia, New York 1982, p 414. Vedi anche J. Rossi. Manuale del GULAG, Mosca 1991, p. 290.
[10] Per esempio negli archivi di Memoria a San Pietroburgo e a Mosca si trovano le memorie di G. Selezneva, il cui vero nome è ignoto.
[11] Toker L. Return from the Archipelago: Narratives of Gulag Survivors. Bloomington, 2000.
[12] Henke S.A. Shattered Lives: Trauma and Testimony in Women’s Life-Writing. N.Y., 1998.
[13] Felman S., Laub D. Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History. N.Y., 1992. P. 78
[14] Bagne Rouge: Souvenirs D’une prisonniere au pays des Soviets. Les Editions du Cerf Juvisy (Seine-et Oisle), 1935. Мемуары Данзас «Bagne Rouge». Red Gaols: A Woman’s Experience in Russian Prisons. L., 1935.
[15] [Iulia Danzas] Red Gaols: A Woman’s Experience in Russian Prisons. L., 1935. Р. 1