Immagini nazionali del passato

(Il XX secolo e la «guerra delle memorie») Appello dell'associazione internazionale Memorial, marzo 2008

IMMAGINI DEL PASSATO
(Il XX secolo e la «guerra delle memorie»)
Appello dell’associazione internazionale Memorial, marzo 2008

IMMAGINI DEL PASSATO

(Il xx secolo e la «guerra delle memorie»)

 

Il xx secolo ha lasciato ferite profonde e mai rimarginate nella memoria di tutti i popoli dell’Europa Orientale e Centrale. Rivoluzioni, colpi di stato, due guerre mondiali, l’occupazione nazista dell’Europa, e quella catastrofe inconcepibile per l’intelletto umano che è stato l’Olocauso. Una quantità di guerre e conflitti locali, la maggior parte dei quali aveva un chiaro colorito nazionale: Paesi Baltici, Polonia, Ucraina Occidentale, Balcani. Un susseguirsi di dittature di diverse tendenze, ognuna delle quali privava gli uomini della libertà civile e politica, e in cambio imponeva sistemi di valori unificati, obbligatori per tutti. I popoli acquisivano, perdevano e tornavano ad acquistare un’indipendenza nazionale intesa, per lo più, nell’ambito dell’autocoscienza etnica, – e ogni volta l’una o l’altra comunità si sentiva offesa e umiliata.

È la nostra storia comune. Ma ogni popolo ricorda e sente questa storia a modo suo. La memoria nazionale rielabora e intende a modo proprio l’esperienza comune. E perciò ogni popolo ha un suo xx secolo.

* * *

Ovviamente qualsiasi «immagine collettiva del passato» è categoria convenzionale e astratta. Ma questa astrazione si incarna in cose del tutto concrete: nelle valutazioni politiche e morali degli eventi storici, nella vita culturale, nei contenuti dell’istruzione, nella politica statale, nei rapporti internazionali e interstatali.

L’amarezza delle antiche reciproche offese può avvelenare a lungo i rapporti fra i popoli: se non si trovano leader come Václav Havel che, diventato presidente della Cecoslovacchia, ebbe il coraggio (contro gli umori della maggioranza dei suoi connazionali!) di chiedere pubblicamente scusa ai tedeschi espulsi dalla zona dei Sudeti dopo la guerra e ai loro discendenti. Gesti simbolici come questo, se non sono in grado di mettere fine alle reciproche rivendicazioni dei popoli, possono almeno ridurne sensibilmente la tensione. Purtroppo è raro che persone della levatura morale di Havel diventino leader nazionali.

Ci rendiamo anche conto che non esiste giudice che possa emettere un verdetto indipendente e imparziale sul passato. Quasi in ognuna delle multiformi immagini del passato generate dalla memoria nazionale si può scorgere sia il tentativo di giustificare il popolo a cui si appartiene, sia un frammento di verità storica che è particolarmente chiaro proprio a quel popolo, e meno visibile ai suoi vicini. La diversità delle valutazioni storiche è una realtà che sarebbe insensato e dannoso sottovalutare. E non basta tenerne conto, bisogna cercare di capirla.

Oggi le discussioni su argomenti storici sorgono non tanto intorno ai fatti, quanto intorno alle loro diverse interpretazioni. Per una lettura coscienziosa e onesta dell’uno o dell’altro avvenimento, fenomeno o processo, è necessario innanzitutto esaminarlo nel suo concreto contesto storico. Spesso tuttavia la scelta stessa di quel contesto genera valutazioni difficilmente conciliabili.

Così, nel contesto della separazione forzata di Vilnius e della regione circostante dallo stato Lituano avvenuta nel 1920 e della loro successiva annessione alla Polonia, la restituzione di tali territori alla Lituania nell’autunno del 1939 appare un atto di ripristino della giustizia. Ma questo stesso avvenimento è considerato in tutt’altro modo nel contesto del patto Molotov-Ribbentrop e degli acclusi protocolli segreti, della fine dello Stato polacco sotto il duplice colpo dell’Occidente e dell’Oriente, e degli altri avvenimenti delle prime settimane della Seconda guerra mondiale.

Un’analoga molteplicità di valutazioni è implicita in tutta una serie di ridistribuzioni territoriali, «separazioni» e «riunificazioni» di quegli anni.

Che cos’è il 17 settembre 1939 per il popolo polacco? È il giorno della tragedia nazionale, quando il paese che con le ultime forze cercava di opporsi all’aggressione hitleriana subì un’invasione improvvisa e niente affatto provocata da Oriente. È un fatto storico, e nessun rimando all’ingiustizia dei confini prebellici o alla necessità di garantire all’Unione Sovietica delle frontiere occidentali di difesa può togliere alla dirigenza staliniana la responsabilità per essersi resa complice dell’aggressione hitleriana contro la Polonia.

Ma per una parte notevole del popolo ucraino quel giorno ha inoltre un significato ulteriore, particolare: è il giorno della riunificazione delle terre ucraine, seppure all’interno dell’urss.

Gli ucraini hanno il diritto di considerare quegli avvenimenti in modo diverso dai polacchi? Sì, ce l’hanno. Ma tanto i polacchi, quanto gli ucraini hanno il diritto di aspettarsi comprensione e rispetto per le differenze della loro memoria.

Come bisogna percepire gli avvenimenti del 1944, quando l’esercito Sovietico scacciò i tedeschi dalla Lituania, dall’Estonia e da gran parte della Lettonia? Come una liberazione dei Paesi Baltici dagli hitleriani? Come un’importante tappa sulla via della definitiva Vittoria sul nazismo? Indubbiamente; e infatti proprio così questi avvenimenti sono percepiti nel mondo. In Russia questa percezione è particolarmente acuta, fa parte ormai delle basi su cui si fonda l’autocoscienza nazionale.

Ma per gli estoni, i lettoni e i lituani le vittorie militari dell’Esercito sovietico significavano anche che i loro paesi tornavano a far parte dell’urss, lo Stato che nel 1940 li aveva privati dell’indipendenza nazionale; significavano il ritorno del regime che in undici mesi, dal luglio del 1940 al giugno del 1941, si era fatto conoscere con numerosi arresti e condanne per reati politici, deportazioni di decine di migliaia di persone in Siberia e Kazachstan, esecuzioni sommarie di detenuti nei primi giorni di guerra. E nell’immediato futuro, che prese definitivamente forma nell’autunno del 1944, li aspettavano la collettivizzazione forzata, nuovi arresti e nuove deportazioni di massa.

I cittadini della Russia e degli altri Stati entrati a far parte dell’urss hanno il diritto di essere orgogliosi dei successi militari dell’esercito sovietico nel 1944? Senza alcun dubbio: questo diritto è stato pagato con il sangue di centinaia di migliaia di soldati. Ma, senza minimamente rinunciare a questo orgoglio legittimo, devono sapere e capire che cosa, oltre alla liberazione dal nazismo, questi successi hanno portato ai popoli baltici. E questi ultimi, a loro volta, ricordando la propria tragica storia, devono ricordare e comprendere che cosa significa per la Russia – e per l’umanità intera – la memoria della grande lotta dei popoli contro il nazismo.

In Georgia e in Ucraina di recente sono stati aperti dei «musei dell’occupazione sovietica». Ciò ha suscitato perplessità o irritazione nella maggioranza dei cittadini russi. In Russia solo gli studiosi di storia sanno dell’esistenza di una Repubblica Democratica Georgiana indipendente dal 1918 al 1921 e dei tentativi di creare una Repubblica Popolare Ucraina indipendente nel 1918-1920, nonché del ruolo avuto dall’Armata Rossa nella loro soppressione. In Georgia e Ucraina invece non è mai scomparsa completamente la memoria di quel periodo, seppur  breve, del xx secolo, in cui furono stati indipendenti. È più che naturale che oggi vi nasca l’aspirazione a rileggere in modo diverso gli avvenimenti del 1920 e 1921.

Si può non essere d’accordo con alcune conclusioni che si traggono in questi casi. Si può polemizzare con quegli storici e giuristi che fanno risalire agli avvenimenti del 1918 l’ordinamento statale attuale dell’Ucraina o della Georgia. Si può discutere con decisione con chi è incline a considerare tutta la storia di questi paesi, dalla fine della Guerra civile fino al 1991, come un periodo di «occupazione». Ma in Russia (il paese al quale molti sono soliti attribuire la colpa di tutto ciò che è stato commesso dal regime comunista) la società deve essere al corrente del dibattito sul passato che si sviluppa nei paesi vicini, deve considerare con attenzione tale dibattito, e non liquidarlo con dei corsivi e delle caricature sui giornali.

Nello stesso tempo l’opinione pubblica ucraina e georgiana dovrebbe rendersi conto che se in Russia non c’è immediato consenso verso gli epiteti sferzanti usati a volte in Georgia o Ucraina per definire alcuni episodi chiave di questa nostra storia comune, ciò non è necessariamente un sintomo di «sciovinismo da grande potenza» e della «sopravvivenza di vecchi stereotipi della coscienza imperialista».

Lo stesso dicasi dei giudizi sulla resistenza armata partigiana contro il regime comunista che si sviluppò negli anni postbellici in Ucraina Occidentale, in Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia. La memoria dei movimenti insurrezionali, di regola, è complessa e drammatica; non può non generare le più diverse valutazioni. Comprese le più estreme: qualcuno è incline a esaltare come eroi i «combattenti per la libertà», per qualcuno è assai difficile separarsi dal consueto concetto di «banditi». Ed è facile trovare valide motivazioni per qualsiasi punto di vista. I contendenti non sono in grado di convincersi a vicenda (anche nei casi in cui il dibattito avviene all’interno di uno stesso paese). Quando poi a una discussione accanita si mescolano ambizioni nazionali e statali e passioni politiche, difficilmente si può sperare di giungere a valutazioni ponderate e accettabili per entrambe le parti. Ma dal battibecco e dalle reciproche offese si può e si deve passare a un civile scambio di opinioni.

L’elenco degli esempi in cui la memoria di un popolo entra in contraddizione con quella di un altro si potrebbe allungare. Queste contraddizioni non sono di per sé negative, al contrario: considerate con la dovuta attenzione, non fanno che arricchire la coscienza storica di ciascun popolo e rendere più articolate le nostre idee del passato.

* * *

In quel settore della storia di cui si occupa l’Associazione «Memorial» (e cioè la storia del terrore di Stato sovietico) questa diversità di valutazioni e letture è risultata non meno dolorosa che negli altri. Le tragedie del passato, se non se ne prende coscienza o le si considera in modo ipocrita e superficiale, diventano la base per nuovi miti storico-politici, influiscono sulle mentalità nazionali, le distorcono, mettono paesi e popoli l’uno contro l’altro.

Quasi in tutti i paesi dell’ex «campo socialista» fioriscono oggi delle forme di riflessione storico-politica che inducono a concepire le «proprie» sofferenze esclusivamente come risultato della «altrui» cattiva volontà. La dittatura e il terrore appaiono allora diretti in primo luogo contro le nazioni, e coloro che li hanno attuati appaiono come «stranieri» o fantocci di stranieri. La coscienza nazionale tende gradualmente a dimenticare che i regimi comunisti in questi paesi per molti anni si sono retti non solo sulle baionette sovietiche, ma anche su ben precise risorse interne.

Inoltre si esasperano ed estremizzano le valutazioni storico-giuridiche di quanto è avvenuto: per esempio, la parola «genocidio» è diventata moneta corrente nel lessico politico di tutta una serie di paesi postcomunisti. Noi ci rendiamo conto che anche valutazioni estremistiche di questo genere non di rado recano in sé una parte di verità storica. Ma riteniamo che una verità parziale sia sempre pericolosa: in primo luogo per coloro che sono pronti a prenderla per verità storica assoluta.

Quando si coltiva l’immagine del proprio popolo come «vittima», quando il livello delle perdite umane è elevato al rango di patrimonio nazionale, si finisce col sottrarsi alle proprie responsabilità, a identificare il «carnefice» col vicino. Si tratta di un risultato naturale del bisogno che gli uomini hanno di scrollarsi di dosso il peso insostenibile della responsabilità civile per il passato. Ma scrollarsi di dosso qualsiasi responsabilità e scaricarla sul vicino non è il presupposto migliore  per la comprensione reciproca fra i popoli, e neppure per la propria rinascita nazionale.

La storia dell’Unione Sovietica è inscindibile da quella della Russia, perlomeno nella coscienza della maggioranza dei suoi cittadini. In parte per questo, e in parte a causa del fatto che la Russia si è proclamata legittima erede dell’urss, per alcuni popoli vicini è comodo scaricare su di essa la responsabilità storica: è sufficiente identificare semplicisticamente la Russia di oggi con l’urss  di Stalin e additarla come la fonte delle proprie tragedie nazionali.

La Russia, da parte sua, ha trovato un modo particolare per alleggerire il fardello imposto dalla storia ai popoli che hanno vissuto il totalitarismo. Invece di coscienziosi tentativi di comprendere la storia del xx secolo in tutta la sua completezza e tragicità, invece di un serio dibattito sul passato sovietico che coinvolga tutta la nazione, qui risorge, solo lievemente modificato, il mito patriottico-imperialista sovietico, il mito della storia patria come una sequela di gloriose ed eroiche conquiste. In questo mito non c’è posto né per la colpa, né per la responsabilità, né per la consapevolezza del fatto stesso della tragedia. Quale responsabilità civile può mai esserci per l’eroismo e il sacrificio di sé? Ecco perché molti cittadini russi non sono semplicemente in grado di rendersi conto non solo del grado di responsabilità storica dell’Unione Sovietica nei confronti dei paesi vicini all’odierna Russia, ma neppure delle dimensioni della catastrofe che ha colpito la Russia stessa. Il rifiuto della memoria, la sua sostituzione con l’immagine di un impero oleografico dove, come diceva il poeta Taras Ševčenko, «dal moldavo al finnico / in tutte le lingue tutti tacciono / e prosperano», rappresenta per la Russia un pericolo sociale non minore di quel che non sia coltivare le offese nazionali per i suoi vicini.

* * *

Lo ripetiamo ancora una volta: di per sé le differenze nazionali nell’interpretazione di importanti avvenimenti storici sono naturali e inevitabili. Si tratta solo di capire chiaramente quale atteggiamento  dobbiamo avere verso queste differenze.

Ovviamente non bisogna rinunciare alla propria comprensione della storia solo in nome del «politicamente corretto»; ma non bisogna neppure imporre ai vicini la propria verità.

È insensato ignorare la verità «altrui», fingere che non esista affatto; è insensato negare la sua fondatezza, dichiarando falsi a priori i fatti e le interpretazioni su cui poggia.

Non bisogna trasformare le sofferenze e le sventure del proprio popolo in una sorta di superiorità morale nei confronti degli altri popoli che apparentemente (o realmente) non hanno sofferto altrettanto, utilizzare queste sofferenze come un capitale politico, convertirle in elenchi di rivendicazioni verso i paesi e i popoli vicini.

Non bisogna in nessun caso cercare di sfruttare le contraddizioni nelle diverse «immagini del passato», usare le particolarità della memoria nazionale per alimentare l’ostilità fra le nazioni e i conflitti fra gli stati.

Qualunque sia la nostra visione storica, oggi è sterile e pericoloso dividere i popoli in «vittime» e «carnefici», valutare il passato secondo le categorie della «colpa storica» degli uni verso gli altri.

E non si tratta solo del fatto che il pensiero giuridico contemporaneo nega la concezione della colpa collettiva, e tanto più ereditaria, per un delitto. (Non tocchiamo qui i problemi legati alla responsabilità giuridica degli stati verso i propri e altrui cittadini). Siamo convinti che per una seria presa di coscienza del passato, per cercare una via d’uscita dai vicoli ciechi delle contraddizioni storiche, l’essenziale non sia la ricerca dei colpevoli, ma la responsabilità civile che spontaneamente si assume chiunque si senta membro di una comunità formatasi storicamente, per le azioni commesse a nome di quella comunità. Se un popolo è unito non solo dalla vita civile e politica contingente, ma anche dal passato comune e dalla speranza di un futuro comune, allora la categoria della responsabilità civile si estende in modo naturale anche alla storia nazionale. Non le grandi conquisti e le grandi catastrofi in quanto tali, ma proprio la responsabilità civile per la propria storia rende un popolo una nazione, cioè una comunità di concittadini.

Questa responsabilità non è un lavoro che si possa concludere una volta per tutte. Ogni popolo deve continuare a rivolgersi al proprio passato, deve cercare di interpretarlo e reinterpretarlo ogni volta daccapo, a ogni nuova generazione, senza distogliere lo sguardo dalle sue pagine amare e terribili, deve sviluppare una propria lettura della storia – e comprendere chiaramente che gli altri hanno diritto a una propria, diversa lettura. Non solo: ogni popolo deve sforzarsi di vedere e comprendere le immagini del passato che si sono venute a formare presso i suoi vicini, e comprendere la realtà storica che sta dietro quelle immagini. Non accogliere, ma proprio comprendere; non sostituire alla propria verità della storia la verità altrui, ma servirsene per completare e arricchire la propria visione del passato.

* * *

Purtroppo vediamo invece che la storia diventa uno strumento per conseguire scopi politici contingenti, un’arma nelle mani di persone a cui, in sostanza, non importa né della verità nazionale degli altri popoli, né delle tragedie vissute dai loro stessi popoli, né del passato in generale. I fatti accaduti di recente intorno al monumento ai soldati sovietici a Tallin dimostrano chiaramente la mancanza di responsabilità civile dei politici sia in Estonia, sia in Russia. La vicenda del monumento è un’evidente illustrazione delle conseguenze che possono avere le diverse immagini nazionali del passato, se il dibattito sulla storia assume la forma del «conflitto fra le diverse memorie».

Ovviamente si troveranno sempre persone che vorranno alimentare questo conflitto per trarne dei dividendi politici – a scapito del loro stesso popolo, a scapito degli altri popoli, e a scapito di tutte le persone normali. Ma neppure la società può sottrarsi alla responsabilità per un simile sviluppo degli avvenimenti, poiché il conflitto diventa possibile là dove manca un dialogo serio e costruttivo.

Che cosa può opporre la società ai pregiudizi radicati, all’intolleranza reciproca, agli interessi egoistici e alla miopia dei politici?

Noi riteniamo che l’unico mezzo per superare la crescente estraneità fra i popoli sia uno scambio di opinioni libero, civile e privo di preconcetti su tutte le questioni controverse della nostra storia comune. Non crediamo che tale scambio di opinioni debba avere lo scopo di eliminare totalmente le contraddizioni: dovrà semplicemente servire a conoscere meglio e cercare di capire il punto di vista gli uni degli altri. Se poi giungeremo a un’unica opinione riguardo a qualche problema cruciale legato al nostro passato, tanto meglio. Altrimenti, niente di grave: ciascuno di noi rimarrà della propria idea, ma impareremo a vedere e capire anche le immagini del passato che esistono nella coscienza dei nostri vicini. Uniche condizioni del dialogo dovranno essere la comune disponibilità dei partecipanti a rispettare l’altro punto di vista, per quanto «sbagliato» possa apparire a prima vista, un sincero interesse per questo punto di vista e il sincero desiderio di comprenderlo.

Per questo dialogo è necessario creare un apposito meccanismo, una sorta di piattaforma di discussione.

* * *

A chiunque sia interessato a una discussione costruttiva e ricca di contenuto sui temi legati al comune passato storico l’associazione «Memorial» propone di partecipare alla creazione di tale piattaforma: un Forum storico internazionale. Immaginiamo questo Forum come una libera associazione di organizzazioni sociali, centri di ricerca, enti culturali, istituti di formazione eccetera, all’interno della quale si attui un permanente scambio di opinioni intorno agli avvenimenti storici conflittuali del xx secolo legati alla nostra area geografica.

S’intende che il Foro non può essere chiuso neppure ai singoli studiosi, pubblicisti e alle altre persone interessate. E, naturalmente, vorremmo che vi fossero rappresentate sia le visioni storiche «dominanti» nell’una o nell’altra società, sia i punti di vista «dissidenti» – escluse quelle interpretazioni che si basano su sistemi di valori apertamente aberranti, fascisti e razzisti.

Il problema della memoria nazionale nei paesi dell’Europa Centrale e Orientale interessa in primo luogo i popoli di quest’area geografica, ma non solo. Alla cosiddetta «vecchia Europa» oggi si unisce un’Europa nuova. Quasi tutti gli stati che la compongono sono entrati o aspirano a entrare nelle strutture della comunità europea. Insieme ad essi nella cultura europea, nella comune memoria europea entrano i nostri problemi, traumi e complessi storici. L’esperienza dei paesi postcomunisti (non solo quelli appartenenti all’Europa «geografica», ma anche il Kazachstan e gli stati del Caucaso e dell’Asia Centrale) diventa una sfida per tutti gli europei: qualcosa con cui bisogna lavorare e che è necessario comprendere. Il dialogo che auspichiamo è solo una parte del dialogo sul passato che riguarda tutta l’Europa e, in sostanza, tutta l’umanità. Inoltre, studiando e analizzando il proprio xx  secolo, molti popoli, sia in Europa Occidentale, sia in America Latina e in altre regioni del mondo, si scontrano con problemi simili a quelli che ci troviamo di fronte oggi, e sarebbe molto importante sapere come questi problemi sono stati risolti e si risolvono da loro. Perciò speriamo che i temi affrontati dal Forum e la nazionalità dei suoi partecipanti non siano strettamente limitati alla nostra area geografica.

A tutti coloro che sostengono la nostra idea e sono disposti a partecipare alla sua realizzazione proponiamo di elaborare congiuntamente delle forme concrete di organizzazione del dialogo: un apposito sito Internet, serie di congressi o conferenze tematiche bilaterali e multilaterali, a cui potranno partecipare non solo storici di professione (che comunque in un modo o nell’altro attuano già uno scambio di opinioni all’interno della comunità accademica), ma anche giuristi, sociologi, giornalisti, attivisti delle organizzazioni sociali e simili. Lo stesso dicasi dei diversi «prodotti dell’attività» del Forum, fino alla pubblicazione di edizioni periodiche comuni e all’elaborazione congiunta di manuali scolastici per la scuola media, che possano far conoscere ai giovani di ciascuno dei nostri paesi le diverse «immagini del passato» diffuse fra i paesi e i popoli vicini.

Il Forum storico che proponiamo di creare favorirà indubbiamente lo sviluppo della comprensione reciproca fra i suoi partecipanti, persone e organizzazioni che rappresentano diversi paesi e diverse tradizioni interpretative del passato. Ma speriamo che possa diventare anche una via per raggiungere la reciproca comprensione fra i nostri paesi e popoli.

È nostro dovere cercare di far sì che i nostri tragici ricordi comuni avvicinino, e non dividano i popoli. E abbiamo l’opportunità di riuscirci, se acconsentiremo a lavorare sul passato insieme, e non divisi.

Associazione internazionale «Memorial»

Marzo 2008

Il testo originale è stato pubblicato su Novaja Gazeta il 27 marzo 2008
http://www.novayagazeta.ru/data/2008/21/18.html

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