Fonti relative agli italiani vittime di repressioni politiche in Unione Sovietica (1918-1953)

in Rassegna degli Archivi di Stato, nuova serie 1 (2005) n.3

di Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti

Fino agli anni Ottanta nessuno poteva sperare che gli archivi del GULag venissero un giorno aperti e soprattutto che la documentazione in essi conservata si fosse mantenuta in forma pressoché integra. E invece a partire dal 1992, data dell’apertura degli archivi russi, è emersa un ricca documentazione relativa al tema delle repressioni che ha messo a disposizione degli storici una messe enorme di informazioni. In particolar modo, a partire da quel momento, è iniziata una nuova fase degli studi sulla storia sovietica degli anni Venti e Trenta, una stagione storiografica tanto intensa quanto purtroppo breve dal momento che soprattutto nel periodo più recente quegli stessi archivi russi sono stati progressivamente richiusi.

Grazie al materiale archivistico rinvenuto a Mosca e in altre città dell’ex Unione Sovietica, è stato possibile ricostruire per la prima volta su base documentaria la complessa vicenda dell’emigrazione italiana nella Russia zarista e in Unione Sovietica. Temi particolarmente interessanti si sono rivelati le origini e le caratteristiche dei diversi flussi migratori, il modo in cui le differenti comunità si ambientarono in Unione Sovietica, il grado e le modalità attraverso cui le vecchie tradizioni si mantennero nel passaggio tra le varie generazioni. E, infine, i meccanismi attraversi i quali la storia politica sovietica degli anni Venti e Trenta si rifletté nel microcosmo delle comunità italiane in URSS. A questo riguardo, particolarmente importanti sono stati gli studi condotti sempre dopo il 1992 sul terrore di stato in Unione Sovietica1 e di quella sua manifestazione particolare che fu il GULag2.

Un capitolo finora poco conosciuto, che s’inserisce in quello più vasto delle repressioni delle comunità straniere nella Russia staliniana, riguarda il destino toccato a molti degli italiani che componevano la piccola comunità residente in URSS negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale.

Di italiani internati nei lager di Stalin parlavano già alcune memorie di testimoni e sopravvissuti. Ma è stato appunto con l’apertura degli archivi che si è potuto accedere alla documentazione diretta di quelle repressioni, compresi i fascicoli d’istruttoria che permettono di ricostruirne tutto l’iter burocratico-giudiziario, dall’arresto agli interrogatori, alla sentenza e alla sua esecuzione.

La ricerca svolta dalla Fondazione Feltrinelli con la collaborazione dell’associazione Memorial di Mosca, da vent’anni impegnata a custodire la memoria delle vittime delle repressioni staliniane, ha permesso di ricostruire il destino di 1026 italiani3, emigrati politici e no. Non tutti questi 1026 italiani di cui abbiamo rintracciato notizie conobbero gli ITL, i campi di rieducazione attraverso il lavoro: alcuni furono arrestati come ostaggi, altri condannati al confino, moltissimi furono deportati, ben 111 fucilati. 27, disseminati in tutto l’immenso territorio russo, dal Mar Bianco al Pacifico, furono i lager in cui vennero imprigionati, 19 le località di confino o i luoghi di deportazione in cui è stato sinora possibile rintracciare la loro presenza.

Numeri non certo paragonabili ai milioni di vittime sovietiche e alle perdite che subirono altre comunità straniere, e tuttavia significativi se confrontati con l’esiguità della comunità italiana in Unione Sovietica, la cui vicenda accompagna e riflette le tragiche dinamiche della storia sovietica di tutto il periodo compreso tra le due guerre.

Alla luce delle ricerche archivistiche condotte, è stato possibile suddividere l’emigrazione italiana in Unione Sovietica in 3 gruppi abbastanza distinti, la cui repressione avvenne in epoche diverse e per motivi differenti, ma la cui storia inevitabilmente si intreccia.

Da una parte c’era un’emigrazione tradizionale, che vantava origini assai antiche, essendosi formata già a partire dalla fine del ‘700 ma soprattutto nell’800, e che fu perseguitata soprattutto negli anni Venti e durante la seconda guerra mondiale: questa emigrazione era divisa in comunità separate che vivevano concentrate in regioni circoscritte geograficamente, soprattutto nei porti del mar Nero e del mar d’Azov – le comunità di Kerč’ e di Mariupol’ erano le più importanti4.

A partire dagli anni venti acquistò grande rilievo invece l’emigrazione cosiddetta politica, costituita da antifascisti, per lo più comunisti ma anche socialisti e anarchici, che avevano trovato rifugio in Unione Sovietica per sfuggire alle persecuzioni e insieme per contribuire a realizzare l’ideale di una società senza classi. Questa emigrazione politica fu colpita a partire dal 1935 e soprattutto negli anni del Grande Terrore, 1937-1938.

Vi era poi una terza categoria di emigrati, costituita da persone diverse per provenienza e ideologia, per lo più artigiani e artisti, che semplicemente vivevano ed esercitavano la propria professione in diverse città della Russia. Costoro furono soprattutto vittime della xenofobia scatenatasi durante la seconda guerra mondiale.

Risalgono agli anni della guerra civile le prime vittime italiane di repressioni in Russia di cui sia stato possibile rintracciare notizie negli archivi: durante la prima settimana del giugno 1919 cinque cittadini italiani, Giacomo Bastucchi, Romano Fadanelli, Angelo Fratini, Severino Pasqualini, Raffaele Sampiero furono arrestati a Pietrogrado e poi detenuti come ostaggi nel monastero di S. Andronico, trasformato in campo di concentramento. (Andronnikovskij konclager’). L’arresto di questi cinque italiani, a cui ne seguirono altri alla fine del 1919, rientrava nella pratica, introdotta dallo stesso Lenin già nel 1918, di catturare cittadini stranieri, per lo più impiegati nelle rappresentanze diplomatiche e commerciali, e minacciare di fucilarli al fine di esercitare pressione sui paesi dell’Intesa che, in quel momento in particolare, sostenevano l’esercito del generale Judenič. Le notizie che abbiamo su questi e su altri italiani arrestati negli anni della guerra civile le dobbiamo all’Archivio della Croce Rossa Politica e del Soccorso dei Detenuti Politici5 istituzioni che avevano lo scopo di assistere, materialmente e giuridicamente, i prigionieri politici, dove sono conservati gli elenchi con i dati biografici degli arrestati e la corrispondenza fra questi, gli attivisti della Croce Rossa Politica e alcuni organi del nuovo regime. Fra le storie che emergono da questi documenti anche quella di Francesco Amandi, un prigioniero di guerra italiano liberato dopo la rivoluzione e arrestato sul treno che doveva portarlo in Italia perché privo di documenti e incapace di parlare altra lingua che non fosse il dialetto veneto. In carcere, un compagno fece appello per lui alla Croce Rossa. Non sappiamo come sia finita la sua vicenda.

Dopo questa prima fase in cui gli italiani vengono colpiti solo sporadicamente, a partire dalla metà degli anni Venti nuove forme punitive messe in atto dal regime sovietico colpiscono altri italiani, questa volta prevalentemente nelle regioni del Sud della Russia. Commercianti, contadini relativamente agiati o piccoli proprietari di imbarcazioni, molti italiani residenti nei porti del Mar Nero rientrano nella categoria dei cosiddetti “lišency”, gli appartenenti alla “classe sfruttatrice” che vengono privati dei diritti civili. Il concetto di lišency, già introdotto nella Costituzione del 1918, ribadito poi in quella del 1924 , rimase in vigore sino alla nuova costituzione del 1936. E non si trattava solo dell’esclusione dal diritto di votare ed essere eletto. Per il lišenec e la sua famiglia la vita diventava davvero difficile: essere incluso nelle liste di lišency comportava anche il licenziamento dal lavoro, l’esclusione da sindacati e cooperative, e quindi l’impossibilità di ricevere prodotti con la tessera; la perdita dell’alloggio nelle case comunali e, in alcuni casi dopo l’introduzione dei passaporti negli anni Trenta, l’espulsione dalle grandi città; un notevole aumento nella quota delle tasse da pagare sino a che non furono introdotte apposite imposte aggiuntive. I figli dei lišency non potevano frequentare le ultime classi delle scuole medie né gli istituti tecnici. Inoltre, i lišency, che ovviamente venivano tutti schedati, erano già pronti per successive repressioni. Bisogna infatti notare che l’operazione di identificazione dei “lišency” fu estremamente importante non solo come uno dei momenti in cui si articolò il terrore di stato sovietico, ma anche per le sue conseguenze nel decennio successivo, quando i lišency, insieme ai kulaki, furono considerati nuovamente una delle categoria di nemici che potevano essere condannati alla deportazione per tre anni negli insediamenti speciali (specposëlki). Nell’archivio di stato di Sinferopoli si è trovata la documentazione relativa alla perdita dei diritti civili di 51 italiani residenti a Kerč’ e in altre città della Crimea6.

Ma il capitolo più tragico e più complesso, anche perché non può prescindere dalle responsabilità dei dirigenti del partito comunista italiano e di Togliatti7, ebbe inizio tra il novembre-dicembre 1934 e i primi mesi del 1935, quando cominciò a essere colpita principalmente l’emigrazione cosiddetta politica, che a partire dalla metà degli anni ’20 aveva affiancato quella tradizionale. Questi emigrati provenivano da esperienze politiche di natura diversa (molti erano iscritti o simpatizzanti del PCd’I8, altri socialisti o anarchici) ma nell’antifascismo trovavano una matrice comune che univa tutte le loro storie personali. Diversa era stato però il loro percorso politico: alcuni erano perseguitati e ricercati semplicemente per le loro idee politiche, altri erano ricercati per reati politici ma erano riusciti a fuggire prima dell’arresto e spesso condannati in contumacia, altri ancora, arrestati e condannati dal Tribunale Speciale, una volta scontata la pena aveva ugualmente lasciato l’Italia dove non riuscivano più a trovare lavoro.

Vi era stato chi era espatriato illegalmente, spesso attraverso la Svizzera, soprattutto verso la Francia, il Belgio, la Germania e il Lussemburgo, dotati di passaporti falsi e aiutati economicamente dal Partito Comunista Italiano. Da questi paesi, o per mancanza di lavoro, o perché nuovamente ricercati anche all’estero per la propria attività politica, emigravano nuovamente alla volta dell’Unione Sovietica, grazie all’assenso del Partito Comunista Italiano (in alcuni casi però riuscivano ad arrivare in URSS anche senza che il partito ne sapesse niente se non erano suoi iscritti) con l’aiuto economico offerto dal Soccorso Rosso Internazionale, noto in Russia come MOPR, (Meždunarodnaja organizacija pomošči borcam revoljucii) ossia l’Organizzazione internazionale di soccorso ai combattenti della rivoluzione9.

Arrivati in Unione Sovietica, tutti gli emigrati avevano l’obbligo di registrare la propria presenza dinanzi agli organi della MOPR e di recarsi dal rappresentante del PCI a Mosca. I dirigenti di un qualche rilievo del partito vivevano all’Hotel Lux, mentre gli altri venivano temporaneamente sistemati alla “Casa degli emigrati”, che, creata dalla stessa MOPR circa verso il 1923, rimase funzionante sino al 1930. Molti emigrati politici di diverse nazionalità vissero qui per qualche tempo: di solito vi rimanevano al massimo per due mesi, con vitto e alloggio gratuito, in attesa che il Soccorso Rosso trovasse loro un lavoro. Una volta sistemati professionalmente, toccava al nuovo datore di lavoro trovare anche un alloggio per gli emigrati e le loro famiglie. In generale, ma non era una regola ferrea, venivano sistemati qui gli emigrati politici comunisti che avevano meriti particolari o si erano distinti nel lavoro clandestino. Alcuni emigrati poi frequentavano le scuole di partito, in particolare la Scuola leninista internazionale e l’Università Comunista delle Minoranze dell’Occidente, che gli italiani per brevità chiamavano “Zapada”.

Gli italiani trovarono spesso nei “Club degli emigrati” un punto di riferimento sociale e politico. Il Club centrale, da cui tutti gli altri dipendevano, era quello di Mosca. A Gor’kij il gruppo degli italiani emigrati politici si ritrovava al Club della fabbrica di automobili e a Odessa presso il Club internazionale dei “marinai”. Un club internazionale dei marinai esisteva anche Mariupol’ e a Novorossijsk. A Kerč’, infine, in un secondo momento, venne creato un club italiano presso il kolchoz “Sacco e Vanzetti”. Tutti dipendevano ed erano strettamente controllati dal Club di Mosca dal cui comitato venivano scelti i dirigenti locali. I gruppi locali, compreso anche quello di Leningrado, riferivano costantemente della propria attività al Club moscovita che, a sua volta, teneva i contatti con il gruppo dirigente del partito prima in Italia e, dopo il 1926, in Francia. Il Club di Mosca era diretto da un comitato in genere formato da nove membri ruotanti e da un presidente. L’attività del Club era molto intensa: suo scopo principale era quello di “esamina[re] e illustra[re] tutti i provvedimenti presi dal partito comunista e dal governo sovietico”. Nel 1923, gli emigrati crearono anche una “cooperativa” diretta da Anselmo Marabini, e poi una comune agricola non lontano da Mosca.

Durante gli anni Venti, era concesso agli emigrati di viaggiare liberamente non solo all’interno dell’URSS ma anche all’estero. Era lo stesso PCI che li richiamava talvolta in Italia per il lavoro di partito. Questo era uno dei motivi per cui per esempio quasi tutti i corsi alle scuole di partito in URSS avevano durata solo annuale. Lo stesso Club promosse più volte presso il partito una politica di ritorno di tutti quei rifugiati politici per i quali non esistevano o erano venute le meno le cause che li avevano costretti a emigrare.

Dopo il 1929, con la vittoria di Stalin all’interno del partito e le trasformazione indotte dalla linea del “socialismo in un solo paese”, le condizioni di vita dell’emigrazione italiana in URSS cambiarono radicalmente sia per coloro che vivevano nelle campagne che per i residenti nelle città. A Kerč’ venne creato dagli italiani un kolchoz modello, di quasi mille ettari, dedicato a Sacco e Vanzetti, di cui il Club di Mosca assunse ben presto il patrocinio. Uno dei compiti dei militanti comunisti che si recavano a Kerč’ in quegli anni era infatti da un lato quello di convincere gli italiani a entrare a lavorare nel kolchoz, dall’altro quello di cominciare a esercitare un controllo più capillare sul comportamento politico degli emigrati stessi. L’azione del PCI era contrastata in senso opposto dal console di Odessa che favoriva in quegli stessi anni il rientro dei giovani italiani proponendo loro di svolgere il servizio militare in Italia in cambio di promesse di beni materiali.

Le collettivizzazione trasformò la vita nelle campagne, mentre per gli italiani che vivevano in città la situazione cominciò a mutare in seguito ad altri due eventi: l’introduzione del passaporto interno e la “ čistka ” all’interno del partito. Il 27 dicembre 1932 il Politbjuro approvò un decreto che obbligava i cittadini al di sopra dei 16 anni che risiedevano in alcune città particolari, come Mosca, Leningrado, Char’kov, Kiev, Minsk, Rostov e Vladivostok (il provvedimento fu poi esteso anche ad altri centri urbani nel corso del 1933) a prendere il passaporto e a registrarlo alla polizia per ottenere il permesso di residenza (propiska) e per trovare lavoro. Il 14 gennaio 1933 questo decreto del Poljtbiuro entrò in vigore con annessa una parte segreta che specificava le categorie a cui passaporto e propiska andavano negati a priori: gli elementi non produttivi, i kulaki i lišency, chi avesse precedenti penali e anche i rifugiati dall’estero che non godessero dello status di emigrati politici10. Il provvedimento aveva essenzialmente lo scopo di impedire che, per sfuggire alla carestia e alla povertà delle campagne, la popolazione si riversasse nelle città. Ma per gli stranieri era un cambiamento fondamentale: chi non era emigrato politico veniva escluso dalla possibilità di lavorare e vivere nei grandi centri urbani; gli emigrati politici, invece, in seguito furono “invitati” a prendere la cittadinanza sovietica. Ma con ciò si trovarono in un vicolo cieco: diventare cittadino sovietico significava perdere definitivamente la cittadinanza italiana e rinunciare per sempre a rientrare in Italia, e non tutti erano disposti a farlo. D’altra parte rivolgersi ai consolati italiani per le pratiche di rimpatrio significava essere catalogati dai sovietici come traditori.

Quanto alla “ čistka” (in russo “pulizia”) dei quadri del partito, avviata nel 1933 e che portò in due anni alla rimozione di circa il 17% dei membri candidati e dei membri a pieno diritto, essa coinvolse anche gli italiani dal momento che molti erano entranti a far parte del partito bolscevico, la VKP(b). Quasi parallelamente, forse durante i lavori del XVII Congresso del gennaio 1934, venne inoltre approvata la proposta di una proverka cioè di una verifica dei documenti di partito che ebbe inizio nel maggio 1935. Grazie a tali misure, nell’arco di quel biennio furono allontanate dal vkp(b) circa 1.600.000 persone, mentre, nello stesso periodo di tempo, l’ammissione di nuovi membri fu assai limitata e discontinua. Se, indubbiamente, le due revisioni erano state programmate con lo scopo principale di far fronte alla confusione che avevano creato le nuove iscrizioni agli inizi degli anni Trenta11, è altrettanto certo però che, con il passare del tempo, tutta l’operazione assunse una configurazione politica più netta. La čistka soprattutto, che inizialmente aveva colpito i membri inattivi e incapaci, non tardò a trasformarsi in un mezzo atto a colpire gli oppositori e ciò, in particolar modo, dopo l’assassinio di Kirov, nel 1934. Non è casuale che la documentazione rinvenuta negli archivi del Komintern sugli emigrati politici italiani riporti con cura chi negli anni precenti era stato oggetto di una čistka, cioè era stato, anche solo temporaneamente, espulso dal partito bolscevico.

A ciò bisogna aggiungere che con l’avvento al potere di Hitler e la precedente occupazione della Manciuria da parte del Giappone, la xenofobìa che, in maniera più o meno sottile, aveva sempre caratterizzato il regime, esplose in maniera violenta. Dopo il 1933 le “nazionalità in diaspora” e tutti gli stranieri, inclusi gli italiani, che vivevano in URSS divennero “nemico”. A riprova di ciò in quell’anno furono scoperte molte “organizzazioni controrivoluzionarie” polacche, tedesche, finlandesi, coreane e, fra le altre, l’anno seguente, una anche italiana.

Fra il dicembre del 1934 e il gennaio 1935 furono arrestati 9 italiani, a Mosca e a Gor’kij, accusati di partecipazione a una presunta organizzazione controrivoluzionaria trockista: Luigi Calligaris, Giovanni Bellusich, Rodolfo Bernetich, Ezio Biondini, Otello Gaggi, Emilio Guarnaschelli12, Michele Manni-Saetoni, Gino Martelli e Ottocaro Tlustos. Fu il primo dei cosiddetti “arresti” di gruppo, formula a cui l’NKVD ricorse spesso nei confronti degli italiani anche negli anni seguenti. Gli emigrati venivano arrestati nello stesso giorno o nel giro di pochi giorni sulla base di un’identica imputazione e, sottoposti a torture, venivano obbligati, durante gli interrogatori, a denunciarsi a vicenda. Nella maggior parte dei casi non c’era un regolare processo, ma dopo gli interrogatori il giudice istruttore stendeva un atto d’accusa e trasmetteva il caso a degli organismi extragiudiziali, una Consulta speciale (OSO) o una trojka dell’NKVD, che pronunciavano la sentenza.

Nel caso dei nove arrestati, le condanne, pronunciate il 4 marzo 1935, furono relativamente miti: tre o cinque anni di confino. Ma negli anni successivi tutti costoro, a parte Tlustos che fu liberato una volta scontata la pena, vennero più volte nuovamente arrestati e condannati: Bellusich, Calligaris, Guarnaschelli e Martelli furono condannati nel 1936 a ulteriori cinque anni di lager che però non finirono di scontare mai. Tra il 1937 e il 1938 infatti, nuovamente processati, vennero condannati alla fucilazione e uccisi nei campi di lavoro nei quali si trovavano: Bellusich in quello di Uchta-Pečora, Calligaris e Martelli in quello di Sevvostoklag, Guranaschelli a Mjakit-Uat, nella Baia di Nagaev. Anche Otello Gaggi fu condannato altre due volte e morì in un lager nel 1945. Durante la detenzione morì anche Michele Mani-Saetoni nel 1942, dopo aver subìto il 7 giugno 1936 una seconda condanna a cinque anni di lavori forzati per attività controrivoluzionaria. Ezio Biondini infine, ebbe un destino ancora più travagliato, per quanto sia possibile fare una distinzione del genere: mentre scontava i tre anni di confino a Syktyvkar, fu arrestato, processato e condannato a 10 anni di lavori forzati. Liberato nel 1946, tornò a Mosca solo nel 1950 e si rivolse all’ambasciata italiana per essere rimpatriato. Sorvegliato dalla polizia politica sovietica, venne immediatamente scoperto, arrestato per la terza volta e condannato a 25 anni di lager. Morì mentre scontava la sua terza condanna.

Se guardiamo le cifre, fra il 1934 e il 1935, 37 furono gli arrestati italiani. Tutti accusati in base all’art. 58 del codice penale della RSFSR, che abbracciava nei suoi 14 paragrafi i vari tipi di reato contro lo stato, dall’attività controrivoluzionaria e trockista al sabotaggio, allo spionaggio, fino al tradimento della patria. Una delle cause di questa crudele repressione degli emigrati fu senz’altro il cosiddetto “terrore della sicurezza” o “terrore xenofobo”. Chiunque avesse legami con l’estero veniva immediatamente sospettato (ed era sufficiente che un italiano si recasse al consolato o mantenesse contatti epistolari con i parenti rimasti in Italia, perché venisse considerato un traditore o una spia). Ma la repressione passò anche attraverso la collaborazione dei dirigenti del Partito Comunista Italiano che lavoravano sia alla MOPR che negli organismi del Komintern. Entrambe queste istituzioni, infatti, disponevano di una messe enorme di informazioni proprio per l’iter burocratico che veniva seguito dal momento in cui uno straniero arrivava in terra sovietica. Tutte le informazioni raccolte dai rappresentanti del nucleo dirigente del partito a Mosca venivano passate alla MOPR, che si occupava degli aspetti più pragmatici della vita degli emigrati, e alla Sezione Quadri della Terza Internazionale, l’ufficio incaricato non solo della gestione burocratico-amministrativa ma anche del controllo “ideologico” del composito microcosmo delle comunità straniere in URSS. Inoltre, attraverso la sorveglianza costante che i rappresentanti del PCI esercitavano sugli emigrati, la documentazione originaria si arricchiva sempre più mano a mano che gli anni di permanenza in URSS degli emigrati aumentavano. In questo modo, la Sezione Quadri del Komintern si trovò a disporre nel corso degli anni di un ricchissimo materiale sugli umori e gli orientamenti politici della comunità italiana in URSS. Oltre a ciò, a partire dal 1936, grazie sempre all’attività solerte dei dirigenti comunisti italiani che lavoravano al MOPR e al Komintern, Togliatti compreso, nei periodi in cui fu a Mosca, gli emigrati politici vennero tutti schedati e fu ricostruita la loro biografia politica con particolari attenzioni a eventuali “debolezze” politiche che essi avessero espresso nel passato. Sulla maggior parte degli emigrati politici informazioni negative vennero comunicate da Roasio, Ciufoli e dagli altri informatori italiani della MOPR e della Sezione Quadri del Komintern all’NKVD.

In questo periodo furono colpiti anche alcuni italiani, per lo più emigrati politici ma non solo, che lavoravano nelle fabbriche impiantate in URSS da aziende italiane: soprattutto nella fabbrica di cuscinetti a sfere “Kaganovič”, nota anche come I GPZ, costruita a Mosca dalla RIV di Torino, tra il 1931 e il 1932, e nella Dirižablestroj, progettata da Umberto Nobile per la costruzione di dirigibili. Fra gli operai della “Kaganovič”, arrestati e condannati, vi furono Roberto Anderson, Dante Corneli, Ludovico Garaccioni, Oreste Gazzotti, Giovanni Guerra, Nicolò Martini, Antonio Ongaro, Francesco Prato, Natale Premoli, Pietro Roveda, Salvatore Sallustio, Giuseppe Sgovio, Umberto Specchi, Riccardo Vattovaz e Luciano Visintini. Lavoravano invece alla fabbrica di Umberto Nobile Robusto Biancani, Lino Manservigi, Gaetano Marcolin, Mario Menotti. In molti casi i motivi della persecuzione si sommarono: molti degli emigrati vennero infatti arrestati sia perché macchiati per colpe di partito sia per il luogo ove essi lavoravano. Del resto l’articolo 58, sulla base dei molti commi in cui si articolava, ben si prestava a questa duplice accusa: esso infatti includeva sia la colpa di trockismo che quello di tradimento e di sabotaggio. In effetti, non era difficile accusare chi lavorava in un’industria di trasmettere informazioni sulla produzione all’estero o di sabotare gli impianti (come per esempio nel caso di Roberto Anderson).

Nel luglio 1937 ha inizio il Grande Terrore, il periodo più sanguinoso anche per l’emigrazione italiana. Alla fine di quel mese, infatti, con il decreto dell’NKVD 00447 ebbero inizio le “operazioni di repressione degli ex kulak, dei criminali e degli altri elementi antisovietici” tra i quali erano inclusi anche i detenuti politici già reclusi nei lager. Alcuni giorni dopo, il 9 agosto, un altro decreto operativo dell’NKVD approvato dal Politbjuro stabilì la “liquidazione dei gruppi spionistici e sabotatori polacchi”. Esso servì da modello nei terribili mesi che seguirono per la repressione di tutte le categorie nazionali controrivoluzionarie, italiani compresi. In rispetto alle ordinanze emesse, furono arrestati tra il 1937 e il 1938 circa 199 italiani, cioè il numero più alto mai raggiunto sino a quel momento. Secondo quanto stabilito dal decreto 00447 dell’NKVD essi vennero suddivisi in due categorie: nella prima rientravano quelli che erano considerati i più pericolosi e che dovevano quindi essere condannati alla pena capitale; nella seconda tutti coloro che “potevano semplicemente” essere reclusi in un campo o in una prigione per un periodo compreso tra gli otto e i dieci anni. Nella prima tipologia furono inclusi un totale di 104 italiani: 26 nel 1937 e 78 nel 1938. Sempre in base al decreto 00447, inoltre, alcuni italiani, già imprigionati negli anni precedenti con l’accusa di spionaggio, terrorismo o delitti politici, furono nuovamente processati e condannati a nuove pene, fra cui frequente la condanna a morte: dei 33 italiani arrestati, per esempio, tra il 1934 e il 1935, 8 vennero fucilati dopo aver subito una seconda o addirittura una terza condanna mentre scontavano la pena e ciò avvenne sempre, o quasi sempre, tra il 1937 e il 1938.

Dall’alto, così come aveva avuto inizio, tra il 15 e il 17 novembre del 1938 il Grande Terrore ebbe fine. Il 17, infatti, una risoluzione del Politbjuro vennero vietate tutte le “operazioni di arresto e di confino di massa”.

Con l’inizio della seconda guerra mondiale si apre l’ultima fase delle repressioni contro gli italiani. Prima del conflitto, l’emigrazione italiana in Unione Sovietica era già stata duramente colpita. Coloro che non erano stati fucilati durante il Grande Terrore, stavano scontando le loro lunghe pene nei lager di Stalin. Altri, pur avendo scontato tutta la condanna, erano stati trattenuti nei campi in base alla direttive emanate dal Commissariato del Popolo agli Interni il 22 giugno 1941 (e poi il 29 aprile 1942) secondo le quali era stata sospesa la liberazione dai lager di tutti i detenuti che dovevano essere liberati. Ma le sofferenze non erano finite: l’attacco tedesco del 21 giugno aprì infatti un nuovo capitolo di repressioni per gli italiani, soprattutto nelle regioni sud-occidentali occupate da Hitler. La Crimea, che era già stata epurata dalla popolazione tedesca alla vigilia dell’occupazione13, fu invasa dai tedeschi nel settembre 1941. Ma già dopo pochi mesi tutta la penisola di Kerč’ venne liberata da reparti dell’Armata Rossa e dai marinai della flotta del Mar Nero. Tra il 26 dicembre 1941 e il 2 gennaio del 1942 le truppe sovietiche della 51 e della 44 armata del Fronte transcaucasico e le forze della Flotta del Mar Nero e della flottiglia da guerra del Mar d’Azov sbarcarono truppe a nord e a sud di Kerč’ e a Teodosia, liberarono Kerč’ e Teodosia e ricacciarono le truppe tedesco-rumene dell’11 armata, quella cioè del generale E. Manstein, dalla penisola di Kerč’.

In realtà la conquista di Kerč’ fu di breve durata (la penisola fu rioccupata dai tedeschi a partire dal 8 maggio 1942), ma ebbe conseguenze gravissime per la comunità italiana, accusata di collaborazionismo con gli occupanti nazisti. Sulla base di un censimento fatto proprio dalle autorità tedesche di occupazione nei mesi precedenti14, tra il 25 e il 28 gennaio 1942 il gruppo operativo dell’NKVD della ASSR di Crimea dette avvio alla deportazione nel Kazachstan del nord di tutti gli abitanti di origine italiana della zona.

Dopo un viaggio terribile durato mesi, la popolazione femminile restò a lavorare nei kolchoz del Kazachstan15, mentre gli uomini vennero inviati al lavoro coatto nel complesso metallurgico di Čeljabinsk, che era in corso di costruzione sotto la direzione dell’NKVD. Sul territorio del cantiere si trovavano 15 lagernye punkty, che ospitavano più di 90.000 persone dai 15 ai 65 anni: tedeschi, italiani, ungheresi, rumeni, polacchi, finlandesi eccetera16.

Le famiglie dei deportati poterono ricomporsi solo dopo la fine della guerra. Alcune rimasero a vivere in Kazachstan, altre a Čeljabinsk, a Saratov o in altre località, mentre solo pochi tornarono a Kerč’.

Sempre a Čeljabinsk così come in altri complessi industriali analoghi che sostenevano lo sforzo bellico del paese furono inviati al lavoro coatto anche altri italiani residenti in URSS, in base alla risoluzione n. 2409ss del Comitato di difesa statale del 14 ottobre 1942, che stabiliva che le persone “appartenenti alle nazionalità degli stati belligeranti contro l’URSS” fossero mobilitate forzatamente nelle colonie di lavoro dell’NKVD. Una nuova ondata di arresti e fucilazioni colpì, sempre negli anni del conflitto, altri italiani, condannati per spionaggio a favore di uno stato belligerante. In quella fase furono arrestati 14 italiani nel 1941, 10 nel 1942, 2 nel 1943, 3 nel 1944 e 5 nel 1945 (in tutto 5 furono i fucilati). Si trattava di persone che si trovavano in URSS per lavoro, dagli artisti di teatro agli artigiani, ai musicisti, ai sacerdoti.

Un capitolo a parte riguarda quegli italiani che durante l’occupazione nazista dei territori vennero arrestati e deportati nei lager tedeschi. Di questi, alcuni dopo la liberazione rientrarono in Italia, altri invece ritornarono in URSS dove, accusati di tradimento e collaborazionismo con gli occupanti, furono nuovamente arrestati questa volta dalle autorità sovietiche. Emblematico il caso di Antonio Di Fonso, che nel 1941 dalla città di Odessa fu deportato in Germania. Quando nel maggio 1945 fu liberato dall’Armata Rossa, dopo la “verifica” in una sezione apposita del MGB fu inviato con l’accusa di tradimento della Patria al confino (ssylka) per 10 anni alla Kolyma. Là lavorò in miniera ai lavori più pesanti. Dopo la morte di Stalin fu liberato e andò a vivere a Mariupol’, dove per lunghi anni nascose a tutti di essere stato deportato in Germania e poi alla Kolyma17.

La storia delle vittime italiane del GULag rimase quasi sconosciuta, almeno fino al 1955-56, quando i lager staliniani cominciarono a essere smantellati e si ebbero le prime riabilitazioni, sancite da un decreto del Comitato Esecutivo Centrale. Una nuova ondata di riabilitazioni si sarebbe avuta poi con l’inizio della perestrojka.

Per ricostruire la storia dell’emigrazione italiana in Unione Sovietica, del suo inserimento nella società sovietica, e della sua repressione sono stati consultati archivi sia russi che italiani. Dalle ricerche condotte è emerso che la documentazione più cospicua è conservata al Gosudarstvennyj Archiv Rossijskoj Federacii (GARF) di Mosca e nel Gosudarstvennyj Archiv pri Sovete Ministrov Avtonomnoj Respubliki Krym (GA pri SM ARK) di Sinferopoli.

Sono inoltre stati presi in esame i materiali conservati all’Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale (ACS, CPC), riguardanti gli italiani emigrati in URSS negli anni ’20 e ’30.

Il regesto del materiale, tutto conservato presso la Fondazione Feltrinelli di Milano e non più consultabile negli archivi di origine data la loro nuova progressiva chiusura a opera del governo russo, è così articolato:

1) GARF, l’Archivio Centrale di Stato della Federazione Russa, suddiviso nei seguenti fondi, in cui sono stati trovati materiali relativi agli italiani:

– il Fondo degli atti istruttori (Fond sledstvennych del, f. 10035, op. 1), dove sono conservati i fascicoli personali degli arrestati nella regione di Mosca provenienti dalla Direzione moscovita della Federal’naja Služba Bezopasnosti (FSB, ex KGB)18. Fra questi gli italiani arrestati a Mosca e nella regione di Mosca negli anni 1936-1948, 37 dei quali furono poi fucilati al poligono di Butovo o alla Kommunarka19. I documenti che formano un fascicolo di istruttoria, oltre a fornirci una grande quantità di informazioni sui singoli italiani (essi raccolgono infatti anche materiali come lettere, curricula, verbali di riunioni, ecc.) ci consentono di analizzare direttamente i meccanismi della repressione e di ripercorrere le diverse fasi dell’iter burocratico e giudiziario, dall’arresto alla condanna alla successiva riabilitazione. Il fascicolo si apre infatti con un mandato di arresto, in cui figura già il comma dell’art. 58 che formerà il nucleo del successivo atto di accusa. L’art. 58 del codice penale della RSFSR abbracciava nei suoi 14 paragrafi tutti i “reati contro lo stato”, dall’attività controrivoluzionaria e trockista al sabotaggio, allo spionaggio, fino al tradimento della patria. In qualche caso al mandato si accompagna un verbale dell’arresto e della perquisizione, con l’elenco del materiale sequestrato: libri, opuscoli ecc. Segue poi l’anketa, il formulario prestampato dell’NKVD che il giudice istruttore compilava con i dati dell’arrestato: questi doveva dichiarare la sua origine sociale, la situazione patrimoniale prima e dopo la rivoluzione, l’appartenenza al partito, l’attività politica e sociale svolta. Un paragrafo riguardava la composizione della famiglia, con dati su professione, età e posizione sociale anche dei parenti residenti in Italia. Questo formulario era accompagnato da una foto segnaletica scattata in carcere. Seguono i verbali degli interrogatori, sicuramente i documenti più interessanti. Scritti a mano, controfirmati dall’arrestato e dal giudice istruttore, riportano ora di inizio e fine dell’interrogatorio, che di solito si svolgeva di notte e che Solženicyn e gli altri testimoni descrivono come l’esperienza più sconvolgente per l’arrestato, più ancora dei lunghi anni di lavori forzati e sofferenze nei lager. Domande ricorrenti riguardano l’attività svolta in Italia. Un eventuale arresto in Italia era visto subito con sospetto: se il militante comunista era stato arrestato dalla polizia fascista e poi liberato, significava che aveva accettato di collaborare e quindi si era trasferito in URSS per svolgervi attività di spionaggio. Secondo quanto precisava l’Ordine operativo dell’NKVD n. 00447 (30 luglio 1937) al punto IV “Nel corso dell’istruttoria devono essere portati alla luce tutti i legami criminali dell’arrestato.”, che era quindi interrogato sulle sue amicizie, sulle persone e i luoghi che frequentava. Poi si entra nel merito dell’accusa, attività controrivoluzionaria, sabotaggio, spionaggio, che di solito viene esposta con le parole che compaiono nel mandato di arresto: “Lei è sufficientemente smascherato”. Talvolta sono presenti anche i verbali degli interrogatori di testimoni o di un confronto fra imputato e testimoni. A riprova della colpevolezza dell’imputato in molti casi sono allegate note caratteristiche anche solo blandamente negative della fabbrica dove egli lavorava o estratti da verbali di riunioni di partito in cui l’iscritto era stato criticato o, peggio, espulso.

Secondo la dottrina del procuratore Vyšinskij, la confessione era considerata la miglior prova della colpevolezza dell’imputato, e per ottenere questa confessione ogni mezzo era ritenuto lecito, compresa la tortura, fisica e psicologica. Dopo che l’imputato è stato indotto a confessare, quindi, il giudice istruttore stende una obvinitel’noe zaključenie, in russo letteralmente “conclusione accusatoria”, che è insieme atto di accusa e verdetto di condanna. In questo documento sono riassunti i capi d’imputazione, con i relativi commi dell’art. 58, e l’esame del caso passa agli organi extragiudiziali, Consulta speciale (OSO) o trojka dell’NKVD. Questi però non svolgevano un processo vero e proprio: l’imputato veniva convocato per pochissimi minuti durante i quali veniva semplicemente letta la sentenza finale, poche righe racchiuse in una mezza pagina, vale a dire l’estratto del verbale della seduta dell’OSO dell’NKVD o della trojka. Frasi scarne che equivalgono a una condanna a lunghi anni di lavori forzati nel migliore dei casi, nel peggiore alla fucilazione. Molto più raramente, il caso è invece esaminato dal Collegio Militare della Corte Suprema, e allora nel fascicolo figura il verbale della riunione preparatoria di tale collegio e quello della seduta a porte chiuse in cui viene emessa la sentenza. Si svolge in questa ipotesi una sorta di processo durante il quale, anche questa volta molto sbrigativamente, l’imputato viene condotto davanti a una corte: nei verbali consultati risulta dalla verifica degli orari di inizio e fine delle sedute che queste ultime non duravano più di quindici minuti. Quindi, a seconda della sentenza, nel fascicolo si conserva l’estratto dell’atto di fucilazione oppure l’ordine di invio a un determinato lager o località di confino.

Il caso viene a questo punto considerato chiuso e la documentazione, salvo ricorsi peraltro rari e sempre respinti, si arresta fino al 1955-1956, quando il fascicolo viene riaperto per la pratica di riabilitazione. I fascicoli del GARF documentano tutte le fasi di questo nuovo procedimento. Il primo passo era costituito da un’istanza di qualcuno dei famigliari, indirizzata alla commissione di controllo del partito o alla procura. Anche questi documenti sono di solito molto interessanti, perché oltre a riassumere la vicenda del condannato dal punto di vista dei famigliari, gettano luce sulle difficoltà, talvolta le persecuzioni da essi subite in seguito all’arresto del capofamiglia: la perdita della casa, del lavoro, il disonore. Molte di queste lettere parlano di “cancellare la macchia” che ingiustamente disonora il militante comunista, sua moglie e i suoi figli. Talvolta vi sono allegati i falsi certificati di morte rilasciati ai famigliari con date e motivazioni fittizie laddove invece l’imputato era già stato fucilato subito poco tempo dopo l’arresto. In questi casi veniva comunicato ai parenti che il loro congiunto era stato condannato a “10 anni senza diritto alla corrispondenza”. Solo più tardi si è scoperto che tale formula equivaleva alla condanna alla fucilazione.

Preso atto di tutto ciò, il procuratore o un suo sostituto avviavano un riesame del caso, consultando fra l’altro il fascicolo personale del condannato conservato nell’archivio del partito o alla sezione quadri del Comintern. Sulla base di tale documentazione, e di quella contenuta nel fascicolo di istruttoria, vengono compilate le spravki, schede riassuntive in cui incongruenze e irregolarità nei giudizi dati dai funzionari di partito vengono messe in evidenza. A volte veniva messo in luce come proprio un giudizio negativo sugli orientamenti o la formazione politica di un emigrato potessero essere stati all’origine del suo arresto. Queste schede informative, allegate alla protesta, vengono infine inviate dalla procura a un Collegio della Corte suprema dell’URSS. Il fascicolo si conclude quindi con la sentenza di riabilitazione, emessa da quest’ultimo, che riporta le considerazioni del procuratore e si conclude con le parole “ è stato condannato senza motivo”. Le riabilitazioni concesse su domanda dei familiari risalgono agli anni immediatamente successivi alla morte di Stalin, mentre altri condannati per reati politici sono stati riabilitati negli anni della perestrojka, con la già citata legge del del 18 ottobre 1991 “Sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche”.

    • il Fondo della Croce Rossa Politica (Političeskij Krasnyj Krest, PKK, f. 8419, op.1), che custodisce la documentazione sul caso degli italiani arrestati a Mosca come ostaggi nel 1919 e in seguito liberati proprio per l’intervento di questa organizzazione;
    • il Fondo Soccorso ai Detenuti Politici (Pomošč’ Političeskim Zaključennym, PPZ) o fondo “Peškova” (f. 8409, op. 1), che raccoglie la corrispondenza fra i detenuti stessi, i loro famigliari e Ekaterina Peškova, presidente dell’organizzazione creata, dopo lo scioglimento della Croce Rossa Politica, per prestare assistenza materiale e giuridica ai prigionieri politici.

 

 

2) GA pri SM ARK di Sinferopoli, l’Archivio di Stato della Repubblica Autonoma della Crimea, che custodisce la documentazione relativa alla comunità italiana di Kerč’. I materiali riguardanti gli italiani residenti in Crimea, che dal 1918 al 1953 subirono varie forme di repressione, appartengono a due categorie:

1) fascicoli relativi agli italiani che negli anni ’20 e ’30 persero il diritto di voto per la loro origine sociale (cosiddetti lišency), custoditi fra le carte dei soviet cittadini di Kerč’ (fondo R-2617, op. 7), Teodosia (fondo R-1033, op. 1), Karasubazar (fondo R-1037, op. 1) e del soviet della provincia di Teodosia (fondo R-1064, op. 1), nonché fra quelle della Commissione elettorale centrale presso il Comitato esecutivo centrale della Repubblica Autonoma della Crimea, dove erano indirizzati i ricorsi contro le decisioni delle commissioni elettorali locali;

2) fascicoli d’istruttoria che contengono tutta la documentazione relativa ad arresto, carcerazione, condanna e successiva riabilitazione di alcuni italiani residenti a Kerč’ e in altre città della Crimea (fondo R-4808).

 

3) ACS, CPC; dal fondo del Casellario Politico Centrale sono stati selezionati solo i materiali utili per ricostruire la storia dell’emigrazione e della repressione degli italiani in URSS: carteggi fra le Prefetture e la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, segnalazioni dell’Ambasciata d’Italia a Mosca e del Consolato generale di Odessa, lettere dell’emigrato e dei suoi famigliari.

 

All’interno di ciascun fondo, i fascicoli sono stati elencati secondo l’ordine alfabetico del cognome della persona a cui si riferiscono (o della prima persona indicata nell’intestazione del fascicolo). In alcuni casi si tratta dello pseudonimo con cui l’emigrato era conosciuto in URSS. L’indice dei nomi consente di risalire da tale pseudonimo al nome proprio.

 

Riportiamo, qui di seguito, la descrizione del GARF e del GA pri SM ARK.

 

GA RF

Gosudarstvennyj Archiv Rossijskoj Federacii

Archivio di Stato della Federazione Russa

Indirizzo: 119817, Mosca, ul. Bol’šaja Pirogovskaja, 17

Telefono: 245-81-41; Fax: (095) 245-12-87

e-mail: garf@glasnet.ru

Direttore: Sergej Vladimirovič Mironenko (tel. 245-12-87)

Nomi precedenti:

1961-24.4.1992 – Central’nyj gosudarstvennyj archiv Oktjabr’skoj revoljucii, vysšich organov gosudarstvennoj vlasti i organov gosudarstvennogo upravlenija SSSR (CGAOR), Archivio centrale di stato della rivoluzione d’ottobre, dei supremi organi del potere statale e degli organi dell’amministrazione statale dell’URSS.

 

Il GA RF nasce nel 1992 dalla fusione dell’ex Archivio centrale di stato della rivoluzione d’ottobre, dei supremi organi del potere statale e degli organi dell’amministrazione statale dell’URSS (CGAOR SSSR, 1941-1961) con l’Archivio centrale di stato della Repubblica Russa (CGA RSFSR, 1957-1992). Comprende oggi oltre 3.000 fondi (con oltre 5 milioni di unità), che vanno dal 1800 al 1993.

La parte più rilevante delle raccolte riguarda il periodo sovietico: si tratta di documenti dei massimi organi del potere sovietico e dell’amministrazione dello stato, a livello sia di Unione sia di Federazione Russa, dalla Rivoluzione russa fino al 1991 (con l’eccezione dei documenti tenuti in altri archivi speciali), provenienti dallo CGAOR dell’URSS.

Il settore prerivoluzionario del GA RF comprende documenti dei più alti organi giudiziari, penali, politici e investigativi dell’Impero Russo, provenienti dall’ex Archivio storico-rivoluzionario di Pietrogrado (trasferito a Mosca nel 1924). Contiene inoltre molte carte personali della famiglia imperiale, provenienti dall’ex Nuovo Archivio Romanov (Novoromanovskij), nonché documenti del Regno di Polonia e del Governo provvisorio del 1917.

Sono inoltre qui raccolte le carte personali di importanti personaggi politici, funzionari statali e leader sindacali, sia del periodo prerivoluzionario, sia di quello sovietico. Molte collezioni provengono da archivi dell’emigrazione, come il RZIA di Praga e altri, trasferiti a Mosca dopo la seconda guerra mondiale. Avendo inglobato il CGA RSFSR , il GA RF custodisce anche molti documenti degli organi centrali della Federazione Russa del periodo sovietico.

Il GA RF ha compiuto un notevole lavoro di declassificazione. Tutto il settore prerivoluzionario dell’archivio è aperto ai ricercatori senza alcuna restrizione.

Anche i fondi di epoca sovietica precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale in Russia (1941) sono stati in gran parte declassificati, con poche eccezioni. Il fondo del Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom) per il periodo bellico è tuttora chiuso, mentre le carte del Sovnarkom e del Consiglio dei ministri relative al periodo successivo sono in parte declassificate. I documenti dell’Amministrazione militare sovietica in Germania (SVAG) non sono ancora accessibili ai ricercatori, ma un decreto presidenziale del settembre 1995 ha dato inizio alla loro declassificazione (con l’eccezione dei documenti riguardanti questioni di proprietà).

Le cosiddette “carte speciali” (Osobye papki) della Segreteria dell’NKVD/MVD (1944-1953), (vedi i cataloghi di recente pubblicazione), sono ora per lo più aperte ai ricercatori, benché gran parte delle carte Berija non sia stata declassificata. I documenti di tale serie relativi al periodo antecedente non sono ancora stati trasferiti al GA RF dal Servizio di Sicurezza Federale.

È a disposizione dei ricercatori un elenco di circa 5000 raccolte declassificate di recente, relative a questioni regolate da speciali direttive presidenziali, come i diritti dell’uomo, i prigionieri di guerra e le vittime delle repressioni.

In base a un accordo fra il Rosarchiv e l’FSB (Servizio di sicurezza federale) (30.11.1994), è previsto il trasferimento dall’FSB al GA RF di raccolte che comprendono rapporti su ex ufficiali delle Armate bianche, sui tedeschi detenuti in campi speciali nella zona sovietica di occupazione della Germania, e sulle persone di origine tedesca, i cosiddetti Volksdeutsche.

Sul Bjulleten’ rassekrečennych dokumentov federal’nych archivov i centrov chranenija dokumentacii si può trovare un elenco ragionato dei fondi e delle raccolte, nonché di alcuni singoli documenti che sono stati declassificati fino al 1997.

 

 

GARF, Fondo degli atti istruttori, 10035, op. 1

 

«Anderson Roberto», P-63120, cc. 35 1937-1955

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Roberto Anderson.

In particolare: mandato di arresto e ordine di carcerazione, 17 agosto 1937; formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato e verbale dell’interrogatorio, 20 agosto 1937; estratto dal verbale della seduta del comitato di partito della fabbrica “Kaganovič” del 23 luglio 1937; atto d’accusa, 25 luglio 1938; verbale della seduta preparatoria del Collegio militare del Tribunale supremo dell’URSS, 26 settembre 1938; ricevuta dell’atto di accusa, firmata da Roberto Anderson, 26 settembre 1938; verbale della seduta del Collegio militare del Tribunale supremo dell’URSS e sentenza di condanna alla fucilazione, 27 settembre 1938; certificato di fucilazione 27 settembre 1938; domanda di riabilitazione presentata della moglie, Lija Podol’skaja, al vicepresidente della commissione di controllo del partito presso il CC del PCUS, P.T. Komarov, aprile 1955; schede informative sul fascicolo personale di Roberto Anderson e di Aldo Mattei (Ezio Misuri) compilate dal giudice istruttore del UKGB della regione di Mosca, Aristarchov, 15 luglio 1955; conclusione del procuratore militare Erofeev, 28 settembre 1955; sentenza di riabilitazione del Collegio militare del Tribunale supremo dell’URSS, 5 novembre 1955.

 

«André Charlot (Gennari Emilio)», P-25536, cc. 10 1938-1941

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto e alla condanna di Emilio Gennari.

In particolare: formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 20 marzo 1938; nota caratteristica rilasciata dalla fabbrica Kalibr, 30 marzo 1938; atto d’accusa, 8 aprile 1938; estratto dal verbale dell’OSO dell’NKVD con la condanna a otto anni di lager, 8 giugno 1938; verbale dell’interrogatorio della testimone Valentina Smirnova; nota informativa del settore quadri del Comintern alla Procura dell’URSS, 15 febbraio 1941.

 

«Bardella Giuseppe», P-25451, cc. 13 1938-1956

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Giuseppe Bardella.

In particolare: mandato di arresto, 13 febbraio 1938; formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 15 febbraio 1938; atto d’accusa, maggio 1938; estratto dal verbale dell’OSO dell’NKVD con la condanna a cinque anni di lager, 24 giugno 1938; nota informativa della sezione quadri del Comintern indirizzata al Procuratore dell’URSS, 3 febbraio 1941; scheda informativa sul fascicolo d’istruttoria n. 716060 relativo a Ivan Grigor’evič Sorokin, 20 luglio 1955; protesta del Viceprocuratore generale dell’URSS Varskoj al Collegio Militare del Tribunale Supremo dell’URSS, 19 giugno 1956.

 

«Bertoch Vattovaz Albina», P-32706, cc. 12 1937-1956

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, all’istruttoria e alla successiva riabilitazione di Albina Bertoch Vattovaz.

In particolare: permesso di soggiorno, 22 marzo 1937; foto segnaletica; verbali degli interrogatori, 31 marzo e 20 dicembre 1938; istanza al Procuratore militare di Mosca; richiesta di informazioni sul destino dei figli inoltrata al Procuratore militare di Mosca, 13 aprile 1940; richiesta di revisione del caso di Albina Vattovaz presentata dalla figlia Iolanda Vattovaz Zabotkina al Procuratore Generale dell’URSS, 13 dicembre 1956.

 

«Bertozzi Olindo», P-23337, cc. 19 1938-1966

Il fascicolo comprende la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Olindo Bertozzi.

In particolare: mandato di arresto, formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 16 febbraio 1938; atto d’accusa; estratto dall’atto di fucilazione, 20 agosto 1938; nota caratteristica fornita dalla fabbrica Sojuzdetfil’m; scheda informativa sui materiali riguardanti Bertozzi conservati nell’Archivio Centrale Speciale di Stato, 13 ottobre 1955; scheda informativa sul caso n. 961674 relativo a Aldo Torre [Gorelli] compilata dal Viceprocuratore militare del distretto di Mosca Šilov il 2 novembre 1955 e scheda informativa sul fascicolo personale n. 1380 di Gorelli, conservato nell’archivio dell’ex Comintern, compilata dal Viceprocuratore militare del distretto di Mosca Šilov il 2 novembre 1955; protesta del Viceprocuratore generale Varskoj al collegio militare del Tribunale Supremo dell’URSS, 20 marzo 1956; richiesta di informazioni sul padre presentata dalla figlia O. Pankratova al KGB, 23 febbraio 1966; richiesta di registrazione della morte in carcere di Bertozzi presentata dal KGB all’ufficio anagrafe della zona Baumanskaja, 16 marzo 1966 e relativa risposta del direttore dell’ufficio anagrafe, 18 marzo 1966.

 

«Biancani Robusto», P-26085, cc. 12 1938-1956

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Robusto Biancani.

In particolare: certificato di arresto, 7 febbraio 1938; risoluzione sulla scelta della pena detentiva per Biancani, accusato di attività spionistica in base all’art. 58-6; foto segnaletica; formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 8 febbraio 1938; elenco degli imputati coinvolti nel caso di Biancani; atto d’accusa dell’UNKVD di Mosca, 15 marzo 1938; estratto dall’atto di fucilazione, 3 giugno 1938; verbale dell’esame del fascicolo d’istruttoria (archivio dell’NKVD dell’URSS), 15 gennaio 1945; scheda riassuntiva del contenuto del fascicolo personale di Biancani presso il CC del PCUS, 19 giugno 1956; sentenza del Tribunale Supremo dell’URSS con revoca della condanna di Biancani, 14 luglio 1956; lettera all’UKGB con la richiesta di informare la figlia Luciana Sorokina che Biancani è stato riabilitato dal Collegio Militare del Tribunale supremo dell’URSS, 8 settembre 1956.

 

«Citterio Ugo», P-26824, cc. 72 1940- 1954

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Ugo Citterio.

In particolare: permesso di soggiorno, 21 dicembre 1939; ordine di arresto e persecuzione, 17 giugno 1938; dichiarazione di apertura dell’inchiesta da parte del giudice istruttore Kotov, 17 giugno; verbali degli interrogatori, 17 e 26 giugno 1940; atto del giudice istruttore Kotov, in cui dichiara che l’imputato si rifiuta di firmare; verbali degli interrogatori, 23 luglio, 3 agosto 1940 (ore 13.35 e ore 19.25), 5, 6, 7, 9, 12, 14, 24, 26 agosto 1940 (ore 11.50 e ore 20.30) e 27 agosto 1940; risoluzione sul prolungamento dell’inchiesta e dei termini di carcerazione preventiva, 16 agosto 1940; risoluzione del giudice istruttore Kotov con cui si unificano i fascicoli relativi a Citterio e a Vittorio Penco e Marija Ravikovič-Vol’fson, 15 ottobre 1940; dichiarazione resa da Vittorio Penco al giudice istruttore Kotov sulla moglie Marija Ravikovič; atto d’accusa in base all’art. 58-10”1” e 58-11, 21 ottobre 1940; estratto dal verbale dell’interrogatorio dell’imputata Clementina Parodi, 4 settembre 1940; note caratteristiche della fabbrica Vsekochudožnik; estratto dal verbale dell’OSO dell’NKVD con la condanna a otto anni di lager, 30 dicembre 1940; atto di morte e lettera di accompagnamento della direzione del lager Uchta-Ižma, 29 maggio 1943; dichiarazione del giudice istruttore Kotov, 23 novembre 1954.

 

«Civalleri Ernani», P-24884, cc. 23 1938-1990

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Ernani Civalleri.

In particolare: mandato di arresto, 10 febbraio 1938; foto segnaletica e formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 11 febbraio 1938; verbale dell’interrogatorio, 15 febbraio 1938; atto di accusa, 5 aprile 1938; estratto dall’atto di fucilazione, 8 marzo 1938; scheda informativa sul caso n. 961644 relativo a Mario Visconti [Francesco Allegrezza], compilata dal giudice istruttore Sedov dell’UKGB di Mosca, 15 dicembre 1955; schede informative sul caso n. 961373 relativo a Renato Cerquetti e sul caso n. 478735 relativo a Mario Menotti, compilate dal giudice istruttore dell’UKGB della regione di Mosca, capitano Sedov, 20 dicembre 1955; istanza al Procuratore generale dell’URSS della moglie, R.M. Civalleri per la revisione del caso e la riabilitazione postuma del marito; scheda informativa sul caso n. 285774 relativo a Guido Serio compilata dal giudice istruttore Sedov dell’UKGB di Mosca, il 4 gennaio 1956; conclusione del giudice istruttore Sedov, 12 marzo 1956, sul caso n. 739867 relativo a Civalleri; protesta al Collegio Militare del Tribunale Supremo dell’URSS del Viceprocuratore generale Varskoj, 29 maggio 1956; lettera del Vicedirettore della X sezione del KGB di Mosca alla Direzione del KGB della regione di Tambov con la richiesta di informare la figlia di Civalleri, Lidia Zelenina, sulla sorte del padre, maggio 1989; istanza della figlia Lidia Zelenina alla Commissione del CC del PCUS per ottenere un certificato con la vera causa della morte del padre, 25 dicembre 1989 e relativa risposta affermativa della direzione del KGB di Mosca, 16 marzo 1990; richiesta ufficiale di modifica della causa della morte sul certificato di Civalleri, inoltrata dal KGB all’ufficio anagrafe del quartiere Dzeržinskij di Mosca, 6 marzo 1990 e risposta del KGB di Tambov al vicedirettore della X sezione dell’UKGB di Mosca, 7 agosto 1989; conclusione della Procura che riconosce “vittima di repressioni politiche” il figlio di Civalleri, Eric, “rimasto senza le cure paterne in tenera età”.

 

«Comelli Gino (Vanoli Luigi)», P-26421, cc. 26 1938-1957

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Luigi Vanoli.

In particolare: formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 8 febbraio 1938; verbale dell’interrogatorio, 13 febbraio 1938; atto d’accusa, 28 marzo 1938; conclusione con cui il Viceprocuratore militare respinge il ricorso della moglie di Comelli, 4 novembre 1940; estratto dall’atto di fucilazione, 3 giugno 1938; scheda informativa sui documenti relativi a Comelli conservati nell’Archivio del Partito, 21 luglio 1956; conclusione con cui il giudice istruttore del KGB Čečurov chiede la revisione del caso, 25 luglio 1956; protesta del Viceprocuratore Generale Varskoj al Collegio Militare del Tribunale Supremo dell’URSS, 6 settembre 1956; richiesta di informazioni su Comelli, 8 gennaio 1957, e relativa risposta dell’UMVD della regione di Mosca, 9 gennaio 1957; ordine di registrazione della morte di Comelli inviato dal KGB all’Ufficio anagrafe del Comitato esecutivo Krasnopoljanskij della regione di Mosca, 21 gennaio 1957.

 

«Corneli Dante», P-27241

– t. 1, cc. 22 1936-1988

La prima parte del fascicolo contiene la documentazione relativa al primo arresto, alla condanna al lager e alla successiva riabilitazione di Dante Corneli. In particolare: formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 24 giugno 1936; verbale dell’interrogatorio, 5 luglio 1936; atto d’accusa; estratto dal verbale con la condanna a 5 anni di lager per attività trockista, 20 agosto 1936; ordine d’invio di Corneli a Vorkuta (Uchtpečlag), 28 agosto 1936; sentenza del Collegio giudicante del Tribunale Supremo della RSFSR, 18 novembre 1988.

– t. 2, cc. 13 1949-1988

La seconda parte del fascicolo contiene la documentazione relativa al secondo arresto, alla condanna al confino e alla successiva riabilitazione di Dante Corneli. In particolare: ordine di arresto e perquisizione, Penza, 21 febbraio 1949; formulario dell’UMGB di Penza con i dati dell’arrestato, 23 febbraio 1949; estratto dal verbale dell’OSO del Ministero della Sicurezza dello Stato dell’URSS con la condanna al confino per appartenenza a un gruppo trockista; ordine di invio al confino a Krasnojarsk, 13 aprile 1949; conclusione con cui il ricorso del condannato Corneli viene respinto, 24 novembre 1953; lettera di Corneli al ministro degli Interni Berija con richiesta di riottenere il passaporto, 1 giugno 1953; appello al presidente della Commissione del Politbjuro del CC del PCUS della figlia, 3 marzo 1988.

 

«Del Magro Eugenio», P- 25532, cc. 28 1938-1956

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Eugenio Del Magro.

In particolare: mandato di arresto e ordine di carcerazione, 20 marzo 1938; formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 24 marzo 1938; verbali degli interrogatori, 24 e 31 marzo 1938; atto d’accusa, 13 aprile 1938; estratto dal verbale dell’OSO dell’NKVD con la condanna a 8 anni di lager, 8 giugno 1938; nota informativa del Sevvostlag con il luogo di detenzione e la data di morte, 9 luglio 1941; atto di morte, 28 maggio 1941; richiesta di informazioni su Del Magro inviata dalla Procura Militare al settore speciale del Ministero degli Interni, 3 giugno 1956 e relativa risposta; richiesta di informazioni su Alfredo Coli (Eugenio Del Magro) inviata dalla Procura Militare al settore speciale del Ministero degli Interni, 3 giugno 1956 e relativa risposta; richiesta di informazioni relative a Del Magro inviata dal Viceprocuratore Militare M. Maksimov al direttore dell’Archivio Speciale del Ministero degli Interni, 16 giugno 1956; scheda informativa sui materiali relativi a Del Magro conservati nell’Archivio Speciale, 1 agosto 1956; scheda informativa sul fascicolo n. 1467 relativo ad Alfredo Coli, alias Eugenio Del Magro; protesta del Viceprocuratore generale al Collegio militare del Tribunale supremo dell’URSS, 16 agosto 1956.

 

«De Marchi Gino», P-24916, cc. 91 1936-1996

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Gino De Marchi.

In particolare: lettera di De Marchi alla figlia Luciana, 12 novembre 1936; nota caratteristica degli studi cinematografici “Mostechfil’m”, 1 novembre 1937; risoluzione sulla scelta della pena detentiva per De Marchi, accusato di attività spionistica controrivoluzionaria in base all’art. 58-6 e 58-10 e ordine di arresto, settembre 1937; verbale dell’arresto e della perquisizione; ricevuta; formulario dell’NKVD con i dati dell’arrestato, 2 ottobre 1937; foto segnaletiche; verbali degli interrogatori, 2 ottobre 1937, 3 gennaio e 8 febbraio 1938; verbale dell’interrogatorio di Ivan Monotov (Silva), 28 febbraio 1938; deposizioni dei testimoni V.V. Beljaev, Petr Vasil’evič Jurakov, Ivan Semenovič Kobyzev (29 ottobre 1937), G.I. Britikov e Michail Markovič Šapiro, (31 ottobre 1937); verbali dei confronti fra l’imputato Gino De Marchi e i testimoni Grigorij Ivanovič Britikov e Vasilij Vasil’evič Beljaev, 2 novembre 1937; atto d’accusa, 2 aprile 1938; estratto dall’atto di fucilazione; lettera della figlia Luciana a Nikita Chruščev, 15 maggio 1956 e lettera di accompagnamento del Comitato Centrale del PCUS, 26 maggio 1956; richiesta di informazioni al KGB, luglio 1956; richiesta di informazioni allo schedario centrale del Ministero degli Interni, 21 giugno 1956; scheda informativa sul fascicolo relativo a Ivan Monotov (Silva), 27 giugno 1956; protesta del Procuratore generale dell’URSS al Collegio Militare del Tribunale Supremo, 30 giugno 1956; sentenza del Collegio Militare del Tribunale Supremo, 14 giugno 1956; lettera del Collegio Militare al Servizio archivi del KGB, 3 agosto 1956; richiesta di restituzione del libretto di risparmio, inoltrata da Luciana De Marchi al KGB, 1 settembre 1956; risposta negativa del KGB, 22 novembre 1956; certificato di riabilitazione, 3 agosto 1956; comunicazione del settore archivi dell’UKGB di Mosca al Ministero degli Interni, in cui si dichiara che De Marchi è morto di peritonite in lager nel 1944, 23 ottobre 1956; comunicazione della direzione moscovita del Ministero degli Interni al settore archivi dell’UKGB di Mosca, 29 ottobre 1956; richiesta di certificato di morte e del fascicolo d’istruttoria presentata dalla figlia Luciana De Marchi Babičkova, 16 febbraio 1996; richiesta di correzione del certificato di morte e relative lettere di accompagnamento dell’FSB, 6 maggio 1996.

 

«Di Giovambattista Filippo», P-22927, cc. 10 1938-1956

Il fascicolo contiene la documentazione relativa all’arresto, alla condanna e alla successiva riabilitazione di Filippo Di Giovambattista.

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