Foto di Daniele Castiglione, luglio 2007
“Un buco scuro sul fianco di desolate montagne era di solito l’ingresso di una miniera. Si scavava a vari livelli, con alcuni dei prigionieri che lavoravano in superficie e altri 2500 o 3000 sotto. I tunnel interni erano cosi stretti che due persone potevano a stento passarci insieme e la loro altezza permetteva a fatica a una persona di media corporatura di camminare diritta nel mezzo. In alcuni posti le gallerie erano cosi mal scavate che dovevamo avanzare sulle ginocchia e sui gomiti. Fino alla fine degli anni ’50 ogni prigioniero doveva procurarsi personalmente la propria torcia, costituita da un ramo alla cui estremità c’era una pezza imbevuta di una sostanza oleosa. La situazione peggiore si verificava quando la luce veniva in contatto con dei gas nelle gallerie, causando esplosioni e crolli delle pareti. Fino alla fine degli anni ’50 i prigionieri lavoravano con picconi e asce come unici strumenti, e le loro gambe si potevano a stento muovere a causa delle pesanti catene.
Il lavoro nelle miniere era un incubo. Nessuna precauzione era presa per proteggere dagli incidenti. Gli ufficiali pompavano ad intervalli aria fresca nelle gallerie…ma essa era sempre frammista a polvere densa, cosi molti svilupparono la silicosi.”
(Da: Michael Solomon, “Magadan” Vertex books, Princeton N.J. 1971)
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